L’infodemia e la partita di pallone. Illustrazione di Licio Esposito

Idee

L’infodemia e la partita di pallone

| Elisabetta Malantrucco

Il giornalismo italiano ha una storia particolare, che segue molto da vicino le vicende e le sorti della classe intellettuale. Prima di ogni altra cosa, a partire dall’Unità, riviste e quotidiani si sono orientati verso la formazione dell’opinione pubblica – con incerti risultati – facendo sempre i conti con il controllo economico e politico delle classi dirigenti. La stampa indipendente ha sempre bisogno di finanziamenti e appoggi. Ma questo è sempre fatto – più o meno - alla luce del sole. 

Scarsa la vocazione per la cronaca: alla fine dell’Ottocento occuparsene viene considerato quasi un ripiego poco dignitoso, come poco dignitose vengono considerate le lezioni private a cui questi giovani aspiranti intellettuali e artisti sono costretti per ragioni economiche. Il giornalismo d’inchiesta è di eccellenza, ma rappresenta – allora come ora - una parte minoritaria. I primi giornalisti “italiani” si chiamano Luigi Lodi, Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, Gabriele d’Annunzio, Carlo Collodi, Vamba: sono grandi intellettuali, studiosi, letterati, poeti, illustratori, artisti. I fogli indipendenti di stampo liberale dove lavorano o che fondano sono giornali d’opinione a tutti gli effetti e sono pieni di idee, considerazioni, valutazioni, commenti; le notizie, invece, sono in genere solo quelle riportate dall’Agenzia Stefani. 

Insomma: siamo molto lontani in Italia dal giornalismo di stampo anglosassone; nei film americani i giornalisti ci vengono rappresentati come spregiudicati e rozzi segugi, con i loro caffè e i loro hot dog in mano, la camicia sporca e la sfacciataggine immorale. In Italia invece il giornalista si considera un intellettuale che forma l’opinione, non importa poi se in effetti questo davvero avvenga: ancora oggi si decide per convenzione che sia così e quello vale un po’ come i dati dell’auditel. Questo è importante, perché ha ripercussioni non solo nel foglio scritto, o nello show politico in video o ancora nei twit e nei post da social network, ma anche nella coscienza di classe del ceto giornalistico stesso. Queste persone si “riconoscono” tra loro, come fossero diplomatici d’altri tempi. Certamente molto è cambiato dalla fine dell’Ottocento e dalla crisi di fine secolo, quando l’opinione della stampa aveva una effettiva rilevanza nelle scelte règie, governative e parlamentari. Ora sono cambiate le formule, si sono diversificati i settori, si sono moltiplicati i mezzi e gli strumenti. Soprattutto è cambiata tristemente la preparazione reale ed effettiva e sono mutati i principi deontologici; inoltre l’irrilevanza ormai evidente della carta stampata nella formazione degli orientamenti politici e culturali della composita società italiana, viene vissuta con imbarazzo, spocchia, rabbia malcelata e rimbalza - nei salotti dei rotocalchi televisivi e in certi programmi radiofonici in voga - o con proterva puzza sotto il naso, o con rude sguaiatezza. Ma in definitiva sembra importar loro poco anche analizzare le ragioni che spingono l’opinione pubblica italiana - che è diversa di certo dalla massa indistinta, ma con essa si confonde spesso ondeggiando in mezzo – a seguire altre direzioni, orientamenti, fonti informative, mode, rabbie, ideali, speranze sogni e prospettive politiche. 

È chiaro che a livello politico questa classe giornalistica cerca comunque risposte e consensi da parte della classe dirigente a cui crede di appartenere o di somigliare. L’hanno chiamata casta, ma è sempre la stessa antica storia, con l’aggravante dell’evidente divario culturale che esiste tra quei Luigi Lodi e Edoardo Scarfoglio e certi giornalisti di oggi. Con le dovute e doverose eccezioni, uno come Pasolini, per intenderci, se oggi scrivesse sul Corriere della Sera avrebbe difficoltà a farsi capire. È desolante ma è la crudele realtà. Questo certo giornalismo che aspira ad essere formativo dell’opinione pubblica rappresenta un vuoto a perdere; è vendicativo con il personale politico non compiacente, è privo di visione anche solo nel medio periodo, considera uomini di successo personaggi che in realtà sono distruttori di ogni senso comune di lealtà e idea dello Stato. 

Giornali cartacei e online sono pieni di inutili informazioni, intercettazioni di chat, scambi di battute, rumors e fuffa, solo fuffa. Il re è nudo. O peggio, sotto il vestito non c’è niente, nel senso dello zero assoluto, del fantasma, dell’ologramma. Di rimando la televisione ha trasformato la politica in spettacolo puro. Laddove una volta ballava Don Lurio, ora vediamo scontrarsi leader politici di piccola o media taglia. L’ultima crisi di governo è stata vissuta in televisione come una competizione sportiva della nazionale, come i Mondiali di Calcio. Mentana come Martellini. O ancora – per non dire di peggio – come un videogioco con livelli sempre più difficili di rischio. Una volta c’era Super Mario – il paragone è assolutamente casuale – che ad ogni livello guadagnava sempre più punti dando grandi testate a dei sassi appesi in cielo. 

Ma nessuno sa davvero cosa sia successo, quali fossero nei contenuti le ragioni del contendere; nessuno sa esattamente cosa ci sia nel Recovery Plan o se lo sa, nessuno ritiene importante informarne lettori e teleascoltatori. Intanto si raccontano frottole, si mente in libertà senza controllo, si nega l’evidenza. Un esempio per tutti è la vicenda Conte: un Presidente del Consiglio che si dimette, pur avendo ottenuto la fiducia sia in Senato che alla Camera, con la evidente percezione collettiva di essere stato sgambettato con spregiudicatezza. Bravo o meno, Conte ha attualmente un consenso molto elevato in Italia e forse è anche una delle ragioni per cui è stato fatto fuori. Se gioca le sue carte bene ha delle chances per il futuro. Ma per varie ragioni la stampa e le televisioni, tranne qualche raro caso (che però si spiega con la vicinanza politica) dicono di no, che ha perduto, che non è un politico, che ha giocato male le carte e che il suo governo è stato fallimentare, malgrado con certe riconferme lo stesso Draghi ha mostrato di pensarla diversamente. 

Perché questo pensiero unico? Le ragioni sono complesse e non attengono a questo articolo. Anche perché bisognerebbe spiegare l’affermarsi di una forza movimentista come quella messa in piedi da Grillo, le ragioni del suo successo, della sua normalizzazione e immaginarne il futuro: cosa che dovrebbe provare a fare proprio quella stampa d’opinione di cui stiamo cercando di denunciare le storture. L’esempio di Conte dovrebbe servire proprio a mostrarne il modus operandi malato. 

Poi c’è l’altra faccia di questa storia triste: cioè la necessità continua di tenere l’allarme altissimo, per avere attenzione e click su Internet e ascolti sui telegiornali – qua la carta stampata può far meno – creando corto circuito nazionale e stato perenne di panico. L’esempio più facile e sotto gli occhi di tutti è la gestione informativa dell’emergenza Covid: un delirio collettivo, un susseguirsi continuo di allarmi, informazioni sbagliate, esperti che parlano e si sostituiscono nelle decisioni, inviti alla delazione, sermoni moralistici in prima fascia, anticipazioni, malumori, un caos vorticoso in cui si fa fatica a ricercare i dati reali. Abbiamo assistito e continuiamo ad assistere alla più grave e pericolosa infodemia mai vissuta in questo Paese. Una volta gli organi di informazione venivano considerati di regime. E forse lo erano. Ma adesso, paradossalmente, la produzione esasperata di informazioni e disinformazioni crea le basi di un regime che può vivere senza pistole e manganelli, senza sanzioni e faccia dura. 

Quello che sta avvenendo non nasce certo come una prova di dittatura; qua ognuno si è mosso e continua farlo in libertà. Intanto però - mentre stampa, social, testate online, radio e tv creano paura, stanchezza, confusione e attacchi di panico - qualcuno ha tranquillamente fatto in modo che l’immensa quantità di soldi che arriveranno dall’Europa venga controllata da specifici occhi e finisca in determinate mani, e questo avviene con il plauso di tutti.  

E col plauso di una stampa troppo spesso vuota, ignorante, vanitosa e presuntuosa. Conosciamo per fortuna autorevoli eccezioni e soprattutto sappiamo che la parte migliore della classe intellettuale italiana ne è cosciente. Siccome la speranza ha senso solo quando sembra una chimera (altrimenti sarebbe troppo facile) c’è davvero da augurarsi che ci sia un riscatto pieno e una reazione formidabile - magari proprio in nome di Matilde Serao e Carlo Collodi - e che questa grande crisi degli anni Venti venga risolta anche con l’aiuto di una classe giornalistica autorevole e capace davvero di formare un’opinione pubblica matura e consapevole.


Illustrazione di copertina: Licio Esposito

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