Idee

In compagnia del covid-19 (e dell'autismo)

| Clara Cerri

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Un anno fa mi sono presa il covid-19. Conosco a perfezione tutte le date perché sono piena di fogli, agende e calendari che tenevo a portata di mano quando chiamavo un numero verde, di quelli che dovevano dare risposte alla gente spaventata e regalavano imbarazzati garbugli di Veramente non siamo noi che ce ne occupiamo. Se chiamavi per il tampone, non erano loro. Se chiamavi per chiedere che medicina prendere, non erano loro. Se chiamavi per chiedere Cosa succede a mio figlio autistico se mi ricovero anch'io, non erano loro. Non ero manco io, perché nessuno credeva che avessi il covid-19. Sarà un'influenza, figurati. Sei stata a Milano, a Bergamo, a Wuhan? No? E allora è influenza.

Era davvero imbarazzante. Mio marito e io ci sentivamo il re e la regina degli ipocondriaci, nessuno ci credeva. In tre giorni eravamo tutti fritti con la febbre, la tosse e il mal di testa, ma figurati se era covid. Il tampone era fuori questione, perché non eravamo stati a Milano, a Bergamo o a Wuhan. Il mio medico di famiglia aveva richiesto un tampone alla mia ASL, la Roma 2, che io immagino rintanata sottoterra come il drago Smaug che ruzza e si rivolta felice nelle migliaia di mail dei medici di famiglia e dei disgraziati in attesa di un tampone, tutte senza risposta. Mia madre, che stava sempre da me anche perché odia cucinare, due giorni prima dello scoppio della peste nera ci aveva detto Me ne sto a casa, dicono che è pericoloso. E non se l'è presa e non ha saputo che avevamo il covid finché non ne siamo usciti tutti. Se credessi alla provvidenza, ne avrei avuto una prova inconfutabile. 

Mio figlio merita un discorso a parte. Aveva compiuto da poco diciotto anni, oggi ne ha diciannove ma col suo metro e quasi ottanta deve essere curato e sorvegliato come un bambino di due anni. Si chiama autismo a basso funzionamento e non somiglia a The Good Doctor. La sua comunicazione col mondo si limita alle cose per lui essenziali della vita, tipo pizza, nutella, pisello – e come dargli torto. Il covid-19 ha volatilizzato in successione ogni specie di aiuto che aveva puntellato la nostra vita: la scuola, mia madre, l'assistenza domiciliare.  Dopo dieci giorni di febbre alta e risposte insoddisfacenti, mio marito, assai recalcitrante, viene ricoverato con un principio di polmonite interstiziale. Tampone positivo. Brutto reparto.  

Di quella settimana sospesa, in attesa del tampone e di sapere se avevamo fatto ambo o terno, ricordo le spese lasciate sulla porta di casa da mio fratello, un cibo che cotto e messo sul piatto sapeva di poco: sentivo solo il dolce, il salato e l'aglio. A mio figlio era passata la febbre ed era rimasta un'astenia mortale, un ragazzo che in genere salta come un Masai da mane a sera stava sdraiato nel letto senza neanche il suo adorato tablet. Siamo ripartiti dai DVD dello Zecchino d'oro, dal disco amatissimo di Sergio Caputo, dai Neri per caso. Guardavo il sole sparire dietro i palazzi, nel canyon urbano del mio cortile. Era un momento triste. Qualcuno metteva l'inno nazionale a palla, io capivo che erano le 18 e davo la medicina a mio figlio. So cantare molto bene ma mi sentivo uno straccio lurido, il palcoscenico dei balconi me lo sono perso. Volevo solo stare meglio e poter essere aiutata da qualcuno. 

Perché due persone con sospetto covid-19 non possono essere aiutate. Il giorno in cui ho avuto dolori atroci al centro della schiena e ho chiamato il 118 non me lo voglio ricordare, o meglio, voglio ricordare solo la gentilezza della dottoressa con la tuta strappata sotto l'ascella, l'unica che mi ha visitata e mi ha assicurato che, se avessi voluto essere ricoverata per maggiori accertamenti, avrei potuto portare mio figlio con me, ovvio.  Perché in quel momento, nella mia città che non è precisamente un villaggio sulle Dolomiti, non c'era nessuna struttura che potesse accogliere un ragazzo autistico con sospetto covid-19 se entrambi i suoi genitori avessero avuto bisogno di ricovero in ospedale. 

Come nelle grandi storie, dopo il momento di maggior paura arriva la calma. Arrivano gli aiutanti magici, una psicologa, l'insegnante di mio figlio che ha tentato di fare didattica negli intervalli tra una chemio e l'altra. Ci si organizza, si trova un ritmo, si comincia a pulire casa con la varechina diluita che sembra acqua al mio naso ignaro.  Arriva un piccolo medico a farci il tampone e mio figlio si comporta benissimo. Un eroe della pandemia, come dico sempre. Eravamo positivi. Pensavo: Finalmente so cosa dire quando mi chiederanno "Cos'hai fatto ai tempi del covid?". “Avevo il covid".

La smetto, giuro. È passato un anno e quel mondo spaventoso e sospeso è rimasto a farci compagnia, ma non sempre, di tanto in tanto. In tanti si sono ammalati, tra le persone che conosco. In tanti sono morti. In tanti mi hanno detto Dai, ormai lo avete fatto, siete immuni. Sì, ma non mi baciare, grazie. 

In realtà non è così, potremmo riprendere una variante, io non ho più anticorpi, quei graziosi animaletti interni che si chiamano Igigi come gli dei minori della Mesopotamia, quelli che si facevano il culo per gli Annunaki, maledetti capitalisti parassiti del pantheon.     

Il covid-19 lascia strascichi pesanti: astenia, mal di testa, palpitazioni, si perdono i capelli e la memoria, due cose che pensavo di avere sempre in abbondanza. Oggi che scrivo sono al settimo giorno di mal di testa, tanto per festeggiare. La mia vita interiore, come quella esteriore, non è più la stessa. Speriamo nel vaccino, abbiamo paura del vaccino. Repubblica, Il messaggero, Il corriere della sera ci terrorizzano con un titolo agghiacciante al giorno. Ti lasciano leggere online dell'intervista di Megan e Harry, ma mettono gli articoli sul covid-19 dietro al paywall. Volevi sapere se la seconda volta che ti infetti è peggio? Tiè (gesto dell'ombrello). 

Il governo è cambiato. La scuola è di nuovo chiusa per tutti. Siamo tutti stanchi e divisi in fazioni rissose. Sto aspettando un appuntamento per vaccinare mio figlio, e noi con lui, forse – e ho esitato a scriverlo, perché non so che reazioni susciterà questa notizia. 

Ma i disabili vanno aiutati. I malati vanno aiutati. Chi ha perso il lavoro, l'amore, la speranza, va aiutato. Alla fine di questi anni assurdi ricorderemo solo l'aiuto, l'affetto dato e ricevuto con una telefonata, una chattata di gruppo, una ricarica di Postepay, una busta lasciata sul pianerottolo, un consiglio. E il coraggio, come quello di mio figlio che da autistico che non si fa fare niente si è lasciato fare cinque tamponi e ha continuato a ridere e a saltare nonostante il covid-19.

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