©Ugo Panella

Idee

Raccontare l'Afghanistan

| Ugo Panella

Raccontare l’Afghanistan è come fare un viaggio tra conflitti, umanità, violenza e droga. I signori della guerra, padroni del paese, hanno fatto dell’Afghanistan la loro cassaforte personale, oltre che spogliato la popolazione civile di qualunque diritto e futuro.

Raccontare l'Afghanistan ©Ugo Panella

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Dal 1979, anno dell’invasione sovietica, non c’è mai stato un solo giorno di pace. Guerre e massacri sono da allora l’aspra quotidianità di chi è costretto a vivere in condizioni provvisorie e inventarsi una possibilità di sopravvivenza.

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Dopo la cacciata dell’Armata Rossa nel 1989, i Talebani presero il potere a metà degli anni ‘90 e lo mantennero fino al 2001, anno dell’abbattimento delle Torri Gemelle.

Massud “il leone del Panshjir”, artefice della vittoria sui sovietici e successivamente contro i talebani con il suo esercito dei Mujaheddin, venne eliminato dai servizi segreti occidentali per impedirgli di realizzare una rivoluzione in proprio, che sarebbe stata destabilizzante per i molteplici interessi economici in gioco. 

Nel 2001 intervennero l’Alleanza del Nord e i contingenti internazionali per cercare di imporre un assetto politico che garantisse loro un’adeguata presenza sul territorio. Un territorio che è stato da sempre appetibile, da Alessandro Magno agli Inglesi, e anche oggi chi controlla l’Afghanistan controlla di fatto i confini di Cina, Pakistan, India e Russia. 

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Oltre agli interessi strategici militari, geopolitici ed economici, fondamentale è il controllo del traffico di eroina, che attualmente rappresenta circa l’80% del PIL nazionale e che fa dell’Afghanistan un narco-Stato. L’Afghanistan è infatti un paese strozzato da un’economia sempre più povera: agricoltura e pastorizia (un tempo principali risorse) sono state compromesse da un territorio disseminato di mine antiuomo e quindi difficilmente coltivabile.

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A Kabul, l’ospedale della Croce Rossa, diretto da Alberto Cairo, ospita centinaia di vittime di queste mine costruite con l’intento di non uccidere ma di mutilare mani, braccia e gambe. 

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Questo, a grandi linee, è il panorama politico e umano che costringe l’Afghanistan a sopravvivere al “grande gioco” che le potenze straniere decidono non per portare la pace e la democrazia, ma per una cinica visione del mondo.

In tale scenario, le donne afgane rappresentano la parte sana di una società che subisce gli eventi. Lavorano, crescono i figli, si scontrano spesso contro una realtà che le vorrebbe sottomesse ed invisibili. Questa loro forza produce futuro.

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