@Marina Spironetti

Incontri

Il cuore della Sardegna

| Valentina Negri

Non c’è solo la Sardegna patinata, inventata da Aga Khan negli anni ’60 e perfezionata da Flavio Briatore nel nuovo millennio.

Esiste una Sardegna diversa, che affonda le sue radici nell’antichissima civiltà nuragica, popolata da creature fantastiche, animata da riti ancestrali e abitata da gente poco avvezza alle parole, i cui sentimenti si rispecchiano nei colori dei costumi tipici e le cui paure sono combattute attraverso le maschere tradizionali.

Questa Sardegna interna è ritratta con delicatezza e allo stesso tempo con passione dalla fotografa Marina Spironetti, nel suo libro Senza mare.

Grazie a una sapiente costruzione dell’inquadratura e a una grande attenzione ai particolari, Marina ci catapulta in un mondo che pare non esserci più e che invece è vivissimo. Veniamo così accompagnati in un viaggio alla riscoperta di riti arcaici, di abiti tramandati di madre in figlia, di abitazioni semplici ma ricche di storia e dignità, sullo sfondo di un paesaggio sempre meraviglioso e suggestivo.

Le immagini, introdotte dal celebre jazzista isolano Paolo Fresu e arricchite dai commenti in tre lingue – sardo, italiano e inglese – sono divise in due capitoli.

Il primo disvela il significato delle maschere sarde, dai più conosciuti Mamuthones e Merdules, fino a quelle meno note come il Su Maimone o il Su Battileddu, tutte legate alla stagionalità e alla rinascita della vita e della natura, ai riti propiziatori per il raccolto e all’esorcizzazione della morte e della paura dei demoni.

Nel secondo capitolo si entra nell’intimità delle case e si scoprono i ricchi costumi tradizionali, pieni di colori, tessuti, gioielli e carichi di simbolismo, la cui vestizione è un vero e proprio rito senza tempo e permette di identificare immediatamente il paese da cui provengono.

 

Ho incontrato per la prima volta Marina ai tempi del Liceo: era in classe con una mia amica e io la conoscevo come in ogni piccola città di provincia ci si conosce più o meno tutti, tra coetanei. Per tanti anni l’ho persa di vista, poi, come spesso accade, l’ho ritrovata su Facebook e ho iniziato a seguire il suo lavoro. Quando ho letto del crowdfunding organizzato per pubblicare il suo primo libro ho aderito all’iniziativa con molta curiosità.

Da mezza sarda (da parte di madre) ho potuto quindi sfogliare e risfogliare le pagine di Senza mare con emozione profonda, ritrovando ricordi dell’infanzia e facendo nuove scoperte. Il libro di Marina mi è entrato dentro e ha risvegliato quella parte di sangue e di DNA che a questa terra è legata, tanto che ho sentito l’esigenza di contattare Marina per confrontarmi con lei su quello che le sue foto avevano suscitato in me. Da qui è nato uno scambio fatto di whatsapp e mail (eravamo in piena zona arancione) che ha dato vita ad una sorta di “incontro virtuale”.

Marina, tu sei originaria di Orvieto, in Umbria e ora vivi tra Milano, Londra e Parigi. Hai viaggiato in tutto il mondo per lavoro: ricordo, ad esempio, un bellissimo reportage di un tuo viaggio sulla Transiberiana. Come sei arrivata in Sardegna? Mi sembra tra l’altro fin troppo ovvio chiederti il motivo della scelta di questa Sardegna meno conosciuta, apparentemente inospitale.
In realtà sono nata a Milano, sebbene nessuno dei miei genitori sia milanese. L’orvietano in questione era mio padre, per questo ci siamo trasferiti in Umbria quando avevo dieci anni. 
La Sardegna è stata una sorta di passaggio obbligato, mia madre è nata e cresciuta lì. Lei, però, è una “sarda di mare”: è nata all’Argentiera, in questo piccolo villaggio di minatori proprio sulla costa, ed ha vissuto vicino al mare fino a quando non si è sposata. In lei ho sempre sentito la nostalgia del mare ed è ancora così, nonostante abbia ormai ottant’anni. Io stessa, durante le mie vacanze in Sardegna da bambina, ho conosciuto la Sardegna “di mare”, entrando invece in contatto con l’entroterra solamente dopo molti anni. 
La prima volta che ho visitato l’interno, una quindicina di anni fa, sono andata ad Orgosolo. Ho un ricordo molto bello di questo paese - dove la storia più recente, sarda e non solo, è scritta e disegnata sui suoi muri, in un enorme museo a cielo aperto - ma anche del tragitto in macchina, della mia scoperta di un territorio così diverso rispetto a quello costiero, dei suoi paesaggi solitari, delle sue asprezze, dei suoi silenzi. C’era un’energia fortissima, con cui mi sono trovata immediatamente in sintonia, era come se qualcosa dentro di me si fosse messo a pulsare più forte. Un senso di appartenenza, ecco. Il progetto è nato in modo naturale: da un lato c’era la mia volontà di conoscere più profondamente quel territorio, dall’altro di fissare attraverso le immagini la mia conoscenza. 

Da mezza sarda, mi ritrovo completamente in quello che dici. Stai descrivendo esattamente ciò che provo ogni volta che sbarco dal traghetto e sono accolta dal profumo inconfondibile di mirto, salsedine e rosmarino. Senso di appartenenza, sintonia, qualcosa che nasce da dentro e pulsa…
Pensi che questo tuo libro possa fare lo stesso effetto anche a chi non ha legami affettivi con questa terra?
Difficile dire. Per chi, come noi, ha un legame di sangue con la Sardegna, l’effetto da te descritto è sicuramente più immediato, per ovvie ragioni. Ma mi piace pensare che chi arriva a questo libro sia curioso nei confronti del mondo, del viaggio, della scoperta. E che l’energia delle persone da me ritratte e della loro terra possa essere trasmessa attraverso l’immediatezza delle immagini, suscitando curiosità in chi le guarderà. Da quando Senza Mare è stato pubblicato, lo scorso novembre, ho ricevuto diversi messaggi da persone, anche straniere, che mi hanno manifestato la loro voglia di visitare la Barbagia dopo aver visto le immagini di questo libro. Direi che come premessa non è male… 

Io credo che sarebbe davvero interessante introdurre anche a scuola lo studio della geografia attraverso la cultura di un popolo. Qualcuno fortunatamente già lo fa. Si può capire moltissimo, ad esempio, dalla musica, dai piatti tipici... Tu hai scelto di raccontare la Sardegna senza mare attraverso le maschere e i costumi tipici: come mai?
Sono sempre stata attratta dalle tradizioni, sarde e non. Mi affascina il rapporto con il passato, che resiste al tempo e a una globalizzazione che sempre più appiattisce le differenze. Le tradizioni rappresentano il nostro legame con chi ci ha preceduto – in molti luoghi, a volte, si finisce addirittura per non conoscere più esattamente il significato di un determinato rito, ma lo si perpetua lo stesso, semplicemente perché così si è sempre fatto, come se certe cose facciano parte di noi, ci scorrano dentro. La Sardegna è una regione che ha saputo mantenere forte questo legame con il proprio passato: maschere e abiti tradizionali sono due declinazioni diverse di questo sentire.

Ecco, a questo proposito: qual è il legame profondo che il popolo sardo ha con la propria tradizione?
I riti che ancora oggi vengono rappresentati in Sardegna vanno molto indietro nel tempo. Le maschere risalgono ad epoca precristiana, sono espressione di un antico mondo agropastorale. Sono legate alla terra, ai suoi ritmi, alla semina e al raccolto, alla richiesta di pioggia. I carnevali barbaricini – luttuosi, cupi, tragici – sono rappresentazione del dolore per la morte del dio della vegetazione, Dioniso Mainoles, necessaria per la rinascita, nel ciclo annuale dell’eterno ritorno. 
Le maschere e riti, che qui sono reiterati anno dopo anno, sono comuni a buona parte dell’area mediterranea. Non posso, essendo solo sarda per metà, spiegare esattamente quale sia il sentire sardo o barbaricino. Posso solo dire di aver avuto la sensazione che qui il rapporto con le proprie radici sia più profondo, più sentito che altrove. Stesso discorso per i costumi: non sono più, è vero, indossati nella quotidianità come accadeva ancora ai tempi di mia nonna, ma sono spesso tramandati di generazione in generazione. Costituiscono un tesoro di famiglia, un patrimonio di tessuti e gioielli da indossare con orgoglio anche per le generazioni più giovani. 
Mi è capitato, nei miei viaggi in Sardegna, di parlare con ragazzi e ragazze poco più che ventenni che portano avanti le tradizioni dei loro antenati con una passione e un orgoglio commovente. La bellezza delle tradizioni è questa volontà di riaffermare costantemente la propria unicità di fronte al mondo – e l’unicità, la propria “diversità”, per me significa ricchezza. Forse è proprio per questo che una buona parte dei miei progetti personali ruota intorno alle tradizioni. 

@Marina Spironetti

Come è stata l’accoglienza del popolo sardo, conosciuto come schivo e introverso?
Meravigliosa. Non potrei descriverla altrimenti. Sono arrivata in quasi tutti i luoghi che ho visitato per questo lavoro da perfetta sconosciuta: tutti mi hanno aperto le loro porte, con quell’ospitalità che è altrettanto proverbiale, quando si parla di Sardegna. Mi hanno raccontato le loro storie, mi hanno fatto sentire parte della loro comunità. Sono rimasta in contatto con molti di loro, ci siamo rivisti in altre occasioni, in alcuni casi sono nate anche delle bellissime amicizie. 
Credo che tutti abbiano la loro etichetta – in ognuna c’è sempre un po’ di verità e un po’ di stereotipo, in dosi variabili. La natura schiva di un sardo, per esempio, non è molto differente da quella di un umbro, per dire. Non solo. Nel mio lavoro, in generale, la diffidenza – a livelli diversi – è qualcosa che ho avuto modo di sperimentare spesso. Abbatterla è il presupposto necessario per raccontare qualsiasi storia. Far sì che chi è davanti all’obiettivo si senta a proprio agio, abbia voglia di raccontarsi, non sia intimidito. In Sardegna come ovunque nel mondo. Per questo ho cercato, in questo lavoro, di creare un rapporto di fiducia reciproca prima di scattare le mie foto; di conoscere chi avevo davanti, le loro storie; di rivelarmi a mia volta. È stato questo lo scambio reciproco da cui è partito il mio lavoro fotografico. 

Paolo Fresu ha scritto la prefazione di Senza Mare. Come è nata questa collaborazione?
Paolo lo conoscevo da tempo, avendolo fotografato in diverse edizioni di Umbria Jazz. Si tratta di una persona umanamente fantastica. Oltre al grande musicista che tutti conosciamo, è anche un poeta e uno scrittore: ha pubblicato tra l’altro anche libri sulla Sardegna (per Feltrinelli, In Sardegna, un viaggio musicale, N.d.R.). Non potevo quindi pensare a un artista migliore per raccontare la terra sarda.

Quando mi hai chiesto quali foto avrei scelto per rappresentare il libro, perché eri curiosa di sapere come gli altri percepivano il tuo lavoro, confesso che mi hai messo in crisi. È stato davvero difficile: dovevo tener conto dei miei gusti, certo, ma soprattutto trovare delle immagini significative anche se avulse dal contesto del libro e che potessero comunicare il senso della tua ricerca.
Mi chiedo, in linea di massima, quanti scatti fai per arrivare alla “foto” e come riesci a sceglierla tra tutte le immagini a tua disposizione? 
Difficile rispondere, perché ogni sessione è un mondo a sé stante. A volte l’immagine arriva subito; altre, magari, quella giusta è proprio l’ultima di una lunga serie. Dipende, davvero. 
Gli scatti, invece, sono quasi sempre troppi, nonostante io mi sforzi sempre di fotografare solo quello che serve davvero. Un numero elevato di immagini rende la scelta più ardua. Quando ho iniziato ad avvicinarmi alla fotografia, uno dei miei insegnanti ci faceva spesso fare degli esercizi usando un unico rullino – 36 pose, quindi. Esisteva già la fotografia digitale, ma lo scopo di quella pratica era, appunto, non esagerare con gli scatti. “Quando scattate, pensate sempre di avere a disposizione 36 pose”, ci ricordava. Ecco, gli scatti che faccio in ogni sessione, oggi, sono molti di più, ma il senso resta sempre lo stesso: sapere cosa si vuole raccontare, cogliere l’essenziale.

Io trovo questo libro bellissimo ed emozionante, hai saputo catturare lo spirito di un popolo e raccontarlo. Ci sarà un seguito? Se sì, in quale direzione: indagherai altri aspetti della tradizione popolare, o magari continuerai il tuo viaggio in altri comuni dell'entroterra?
Non nego che mi piacerebbe continuare questa ricerca, ci sono ancora tante altre cose da raccontare. Il lavoro di Senza Mare non è, ovviamente, onnicomprensivo: è il risultato della mia ricerca, del mio cammino personale, ma ci sarebbe ancora molto da dire. Sono certa che il mio amore per questa terra e la mia curiosità mi riporteranno ancora lì, non appena sarà possibile.

Più in generale, cos’hai nel cassetto del futuro prossimo?
Come puoi immaginare, in questo momento così strano si naviga a vista. I mesi del lockdown e delle restrizioni mi hanno obbligato a procedere in direzioni diverse rispetto al mio modo tradizionale di lavorare. Le mie fotografie sono sempre state legate al viaggio, alla scoperta di un altrove. Trovarsi improvvisamente in casa, senza poter nemmeno uscire dalla propria città, mi ha spinto a cercare nuovi modi di raccontare attraverso la fotografia – non so ancora quanto mi siano congeniali, a dire il vero, ma ho sviluppato un piccolo progetto, molto personale, su questo periodo, che è ancora in fieri. 
Il movimento, però, resta sempre fondamentale nel mio processo creativo, e tutti i progetti “nel cassetto”, in questo momento, dipendono dalla situazione generale e dai suoi sviluppi. Mi piacerebbe continuare il lavoro fatto nel viaggio in Transiberiana, di cui parlavi tu prima, mi piacerebbe iniziare un nuovo progetto in Sicilia, mi piacerebbe tornare in Africa. Certo è che, appena si potrà, correrò in aeroporto.

@Marina Spironetti

 


Marina Spironetti

Nasce a Milano nel 1974. Dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere, inizia a lavorare come giornalista. Nel 2004 studia fotogiornalismo presso il London College of Communication; dal 2005 al 2008 lavora come corrispondente per l’agenzia italiana Eidon Press, per cui copre i maggiori eventi politici da Londra e dal Regno Unito. Rientrata in Italia, dal 2013 collabora regolarmente con riviste italiane e internazionali. 

I suoi interessi spaziano dalla fotografia di ritratto a quella di viaggio, ma sempre con una particolare attenzione all’elemento umano. Molti dei suoi progetti personali hanno come oggetto la documentazione di tradizioni e culture che stanno scomparendo. 

Le sue immagini sono state esposte in mostre personali e collettive a Londra e Tokyo. Nel 2017 è selezionata fra gli artisti di Photo Oxford e ha partecipato alla prima Triennale della Fotografia italiana, a Venezia. 

È stata fra i vincitori del Travel Photographer of the Year per tre anni consecutivi (2016-2018). 


Come acquistare Senza Mare

Il libro si può acquistare online direttamente sul sito dell’editore Crowdbooks, o sui principali siti di vendita online (Amazon, Feltrinelli, IBS).

Lo si può anche ordinare in libreria: di solito arriva in un paio di giorni.

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