@Anna Celani

Incontri

Anna Celani e il Neopittorialismo

| Massi Dicle

Il Pittorialismo

La querelle del rapporto tra la pittura e la fotografia si sviluppò quasi contemporaneamente alla nascita di quest’ultima, nella prima metà dell’800. Non erano in pochi, infatti, a negare che la fotografia potesse essere considerata “arte”, alla pari della pittura, visto che si risolveva in un procedimento per lo più meccanico. A sua difesa, c’era invece chi osservava quanto fosse irragionevole escludere l’esistenza di un apporto originale da parte del fotografo, anche solo considerando la perizia necessaria per ottenere le immagini – e questo senza contare che gli stessi pittori, fin dal Rinascimento, non avevano disdegnato di servirsi di strumenti come la camera oscura, l’antesignana della macchina fotografica.

L’opinione prevalente era comunque limitativa: la fotografia – si diceva - incarna la materia, l’industria, l’esattezza scientifica; la pittura rappresenta invece lo spirito, l’arte, la fantasia. La prima è riproduzione, la seconda creazione.

Il superamento dell’anatema cominciò ad attuarsi nella seconda metà del secolo decimonono, grazie all’avvento dell’Impressionismo nel campo della pittura e del Pittorialismo in quello della fotografia. L’Impressionismo, con la sua attenzione per la luce e i suoi effetti, in qualche modo sembrava voler coniugare pittura e fotografia: non è un caso che la prima esposizione impressionista, nel 1874, si sia svolta proprio nell’atelier del celebre fotografo Félix Nadar.

Specularmente, il Pittorialismo ambiva ad elevare definitivamente la fotografia al rango dell’arte tramite l’imitazione della “sorella maggiore”, ossia ispirandosi alle tecniche e ai soggetti dei pittori.

I pittorialisti, infatti, “mimavano” la pittura, cercando di far sembrare le fotografie dei dipinti o dei disegni: così uno scatto di Robert Demachy, che ritrae delle ballerine prima dell’esibizione, può non distinguersi da un pastello di Degas.

Behind the scene, Robert Demachy
Behind the scene, Robert Demachy
Ballerine, Edgar Degas
Ballerine, Edgar Degas

Per cercare di riprodurre i soggetti più scenografici dei pittori, inoltre, predisponevano dei veri e propri tableaux vivants, con numerose comparse.

Two ways of life, Oscar Gustave Rejlander
Two ways of life, Oscar Gustave Rejlander

 

Seguendo l’esempio dei “cugini” impressionisti, i pittorialisti uscirono dagli atelier per lavorare en plein air, in modo da poter catturare meglio la luce e i colori naturali, dando grande impulso alla fotografia paesaggistica.

Fondamentale, soprattutto, fu per loro la ricerca tecnica, che riguardò sia le metodologie di stampa (alla dagherrotipia si aggiunsero la calotipia, l’ambrotipia, l’oleotipia e la bromoleotipia), sia i materiali su cui questa avveniva (si sperimentò il ferro, il vetro, la gomma bicromata). Ancora, diversificarono gli obiettivi per le inquadrature e introdussero i fotoritocchi. Tutti questi ritrovati tecnologici, paradossalmente, accentuarono la manualità del procedimento fotografico e la maestria richiesta ai fotografi per realizzare le immagini.

Gli artisti

In Europa, precursori del Pittorialismo furono il francese Gustave Le Gray, che introdusse la stampa combinata di più negativi su un unico positivo, l’inglese Henry Peach Robinson, a cui si deve l’introduzione del termine pittorialismo, lo svedese Oscar Gustave Rejlander, l’inventore del fotomontaggio, e l’inglese Julia Margaret Cameron, con i suoi eterei fuori fuoco.

Quando poi al principio del secolo successivo il movimento sbarcò negli USA, Alfred Stieglitz, da buon americano, portò la fotografia d’autore fuori dai circoli aristocratici, con l’obiettivo di creare un vero e proprio mercato dell’arte fotografica. Allo scopo, affrancò il pittorialismo dall’imitazione dei quadri del passato per indirizzarla su nuovi soggetti: il traffico, i grattacieli, la città moderna. Aprì una galleria e fondò una rivista, Camera work, in cui oltre alle foto si pubblicavano articoli su letteratura, pittura e scultura contemporanee: tutte le arti venivano messe sullo stesso piano.

Mentre portava all’attenzione del grande pubblico il pittorialismo, Stieglitz in qualche modo ne sanciva però la fine, perché anche grazie a lui la fotografia ormai da ancella della pittura era diventata un’arte a pieno titolo.

Il pittorialismo in Italia

In Italia il Pittorialismo prese le mosse da Torino, grazie due importanti mostre svoltesi nella città a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Esponente di spicco ne fu Guido Rey, che fu anche uno dei pionieri dell’alpinismo moderno. Sempre a Torino, nacque la rivista ufficiale del movimento, La fotografia artistica, pubblicata dal 1904 al 1917.

Il pittorialismo è rimasto vitale nel nostro paese per tutto il ‘900, con artisti del calibro di Domenico Riccardo Peretti Griva e Salvatore Andreola, ai quali anche di recente sono state dedicate mostre di vasto seguito.

Anna Celani

L’incontro con Anna ha dovuto necessariamente fare i conti con le limitazioni imposte da questi tempi di pandemia. Essendo troppo complicato riuscire a vederci di persona (lei risiede a Roma con il figlio Emanuele, mentre lo scrivente vive in provincia di Milano) ho prima inviato una mail ad Anna con una serie di domande – sul suo lavoro in generale e, più in particolare, sul progetto Piombo e oro, di cui proponiamo alcuni stralci - alle quali mi ha risposto per iscritto. Le ho poi chiesto ulteriori chiarimenti, sempre via mail ma anche mediante vocali di WhatsApp. Da ultimo, abbiamo finalmente avuto un colloquio telefonico in diretta, che se è risultato forse più freddo rispetto a un incontro di persona, per lo meno è stato agevolato dallo scambio “epistolare” precedente.

Come sei diventata pittorialista? Avevi conosciuto il Pittorialismo durante i tuoi studi o, come spesso accade, dopo che avevi già cominciato un tuo personale percorso hai scoperto che aveva affinità con l’esperienza dei pittorialisti?
La seconda che hai detto. Fin da bambina mi sono appassionata alla pittura, avendo una pittrice dentro casa (la madre Adriana, che è stata allieva di Claudio Secchi, N.d.R.), e ho sempre amato giocare con le forme e i colori.
Purtroppo, non mi è stato consentito proseguire gli studi in questo senso, ma ho trovato nella fotocamera un mezzo poco ingombrante e veloce per parlare della mia realtà. Così sono diventata pittorialista in modo del tutto naturale.

Cosa è per te il Pittorialismo?
Il pittorialismo è nato per l’esigenza di dare dignità all’arte fotografica. Come molti sapranno, Baudelaire guardava con sospetto alla fotografia: ammetteva che era in grado di registrare lucidamente la realtà, ma l’accusava di avere azzerato la manualità, in quanto si serviva di un mezzo meccanico che facilitava il compito dell’artista, annullandone l’originalità.
Ora, dopo due secoli, non credo ci sia più nessuno che possa negare che anche il fotografo interpreta in modo del tutto personale la realtà: sceglie un tema che gli sta a cuore e, nel rappresentarlo, conferisce all’immagine le tonalità, le forme e le composizioni che trova più adeguate per esprimerlo al meglio.
Quello che mi avvicina ai pittorialisti, pertanto, più che la rivendicazione della pari dignità della fotografia rispetto alla pittura (ormai assodata), è la volontà di fondere le due discipline.

Come lo fai?
Cerco di “ricopiare” uno stile pittorico (ad esempio, amo molto la pittura fiamminga), sforzandomi di mantenere volumi e composizioni nel modo che più lo ricordi: così racconto la mia storia.
Quello che più mi piace è trasmettere la “velocità” di una foto con la calma della realizzazione di un dipinto. Il mio motto è: lavora su una singola immagine per diverse ore… in modo che colpisca in un millisecondo.

In altre parole, cerchi di sfruttare le prerogative di entrambe?
Sì. Nella pittura non puoi cogliere l’attimo come in una fotografia. Di contro, la fotografia presenta altre limitazioni. Nel fotoreportage, ad esempio, anche se in linea di principio è possibile mantenere una composizione corretta, nella concitazione del momento (mi vengono in mente i fotografi di guerra) questo è molto più difficile, visto che stai documentando un fatto e magari non hai il tempo di badare alla disposizione degli elementi, al settaggio della macchina eccetera. Nella naturalistica, devi armarti di tanta pazienza per attendere l’animale che vorrai ritrarre e rispettare orari e situazioni climatiche…
Io invece ho modo di riflettere su quello che voglio trasmettere per tutto il tempo possibile e, soprattutto, posso agire quando mi sento ispirata.

Quando si pensa alle influenze sul Pittorialismo viene sempre in mente, come è naturale, l’Impressionismo, ma un’influenza importante sul movimento pittorialista la ebbero anche i Preraffaelliti. Guardando all’aspetto onirico di molte tue immagini, mi sembra di notare un collegamento con loro. Mi sbaglio?
Mi fa piacere che accosti le mie opere ai Preraffaelliti: non ci avevo mai pensato, a dire il vero, ma ritengo che la tua analisi sia corretta e ti ringrazio. Tieni presente che arrivare a comprendere pienamente ciò che si fa è frutto di tanto lavoro e di una maturazione interna. Io con il tempo ho scoperto molte cose di me e grazie alla psicanalisi sono riuscito a capire per quale motivo le mie visioni sono essenzialmente oniriche.

Qual è il motivo?
Un artista, quando rappresenta la realtà, ricrea sempre un mondo personale. Per quanto mi riguarda, ho capito che il mio è un mondo “fantasticato” e che preferisco esprimere emozioni e sensazioni interiori attraverso figure che possono esistere solo nei sogni.
Soprattutto, sento forte la necessità di sganciarmi dal quotidiano e, lavorando sui miei progetti, mi sembra di volare in altri universi: do vita a un’isola felice dove potermi rifugiare e trovare pace dal mio tumulto interno. La psicoanalisi mi ha permesso di esternalizzare i miei pensieri, invece che tenerli chiusi in un “barattolo” nascosto in un cassetto, e di non vergognarmene.

Quindi, grazie al mio suggerimento, hai compreso che oltre che pittorialista sei anche preraffaellita.
In parte sì. Credo comunque di identificarmi in misura maggiore nell’esperienza decadentista, che personalmente cerco di vivere come senso di disubbidienza a ciò che vedo. Anche Wenders diceva che la fotografia è sempre un atto di ribellione.

Ho l’impressione che la tua concezione di Decadentismo sia molto personale. Il Decadentismo, di solito, non lo si associa alla rivolta, ma piuttosto all’estetismo, alla raffinatezza.
Il decadentismo, per quanto mi riguarda, è la ribellione all’eccessiva razionalità, a regole ed etichette che ci disturbano, all’ipocrisia di chi si sente perfetto. È il tentativo di perfezionarsi attraverso un’arte che però è ben consapevole di essere imperfetta.

Il Decadentismo come rivendicazione della propria “diversità.
Esatto. Ho scelto questo modo di esprimermi perché volevo essere diversa, ma senza arroganza: non mi sento né migliore, né peggiore degli altri. Posso dirti che fin da bambina non mi sentivo totalmente integrata: oggi, con quello che faccio, continuo a non sentirmi integrata, ma in compenso mi sento realizzata, o meglio, nell’atto di realizzarmi.  

Ti senti più fotografa o più pittrice? Più in generale, ha ancora senso, con l’avvento della tecnologia moderna, dividere le due arti? Non c’è ormai un’unica arte visuale, che si serve di tutti gli strumenti disponibili?
Mi sento inadeguata sia nella veste di pittrice, sia in quella di fotografa, mentre mi sento a mio agio quando, partendo da un soggetto che ho ripreso con una buona luce, ho la possibilità di “dipingergli intorno” la vita che immagino stia vivendo in quel momento.
Perciò credo che non si possa negare la possibilità di fondere le due forme d’arte, per crearne una nuova che sia in grado di spalancare le porte a visioni a cui non siamo abituati.

Da dove ti arriva l’ispirazione?
Cosa scateni esattamente quello che voglio rappresentare non saprei dirlo. Qualche giorno fa ho fotografato in strada una serie di macchine da lavoro: mi sono persa nei bottoni, nei cingoli, le spie luminose e i cavi elettrici.
L’ispirazione per me è come un bagliore che mi attraversa la mente, che a volte non riesco neanche a cogliere distintamente e mi rimane dentro per giorni, fino a quando non riesco a decifrarlo. 

E come fai a decifrare il “bagliore”?
Ci arrivo piano, guardando tutto quello che mi circonda. Normalmente è legato a qualcosa che vivo, uno stato interiore che avrei difficoltà a spiegare con le parole. L’arte ci regala l’enorme dono di poter comunicare ciò che è inesprimibile e, quando vogliamo raccontarci veramente, grazie all’arte possiamo farlo senza veli e senza menzogne.
Per oggettivare il “bagliore”, penso a una serie di immagini e a un fil rouge che le sostenga. A quel punto prende forma un tema.

E quando hai individuato il tema, in che modo lo sviluppi?
Tecnicamente, quando penso che sia arrivato il momento di dare corpo a un progetto preciso, scatto 50/70 foto in una sola sessione (faccio almeno altre 4 o 5 sessioni, con idee sempre più chiare), utilizzando uno sfondo uniforme. Poi catturo la porzione che mi interessa della foto e la riporto su un foglio della stessa tonalità dello sfondo della fotografia. Allo stesso modo, se devo disegnare vicino al soggetto altri elementi, li catturo da altre foto. A quel punto, comincio a ridipingere: posso agire sulle tonalità, cambiare i colori, scurire, schiarire, sfinare, contrastare, conferire una maggiore nitidezza o sfumare quello che voglio; utilizzare filtri, simulare pellicole diverse.

©Anna Celani
©Anna Celani
Un esempio del procedimento sopra descritto

Ma usi Photoshop?
No no no… uso un programma vecchissimo, quasi manuale. Neanche Baudelaire avrebbe da ridire. 

Alla pari dei pittorialisti, anche tu quindi hai la possibilità di predisporre delle composizioni scenografiche, col vantaggio che almeno non devi radunare molte comparse in una stessa stanza.
Questo è un vantaggio della tecnologia. A volte mi interessa solo un soggetto limitato, in altre occasioni so già che dovrò aggiungere altri elementi che mi aiutino a raccontare quello che voglio dire.
In particolare, amo le contaminazioni, ovvero inserire nelle mie immagini sempre qualche elemento contraddittorio, anacronistico. Nella rappresentazione di Achille, il personaggio veste come copricapo uno scaldacollo a disegni cachemire; nella rappresentazione di Nettuno, il dio “indossa” un elmo ricavato dalla carenatura di una moto. Spesso mi capita di utilizzare nelle composizioni oggetti di tutti i giorni a cui le persone normalmente non fanno caso e, in generale, mi piace evidenziare gli oggetti moderni, proprio per caratterizzare le mie opere di un’impronta personale.

Che impressione vuoi suscitare in chi vede le tue immagini?
Mi piacerebbe che i fruitori delle mie immagini potessero identificarsi nei soggetti e rivivere, secondo le proprie esperienze e il modo di interpretare le personali esistenze, gli stessi momenti che ho vissuto io, magari scatenati da eventi diversi.
Quando ho realizzato l’immagine di Achille, avevo immaginato la sua reazione quando gli era stato sottratto Patroclo, oggetto del suo amore: volevo esprimere la rabbia dolorosa per il vuoto che gli aveva inflitto Ettore uccidendo il cugino.
Alcuni vedendo quest’opera, mi hanno invece riferito di ravvisare un momento di rinascita, la famosa resilienza, ovvero la capacità di rialzarsi e di ottimizzare la sconfitta traendo una lezione importante. Questo perché nelle immagini c’è uno spazio buio che ognuno può riempire come desidera: si può colmare con i propri sogni o incubi o lasciarlo così com’è. Vorrei che ciascuno si sentisse libero di interpretare quello che vede come vuole: certo per me c’è un contenuto preciso, ma non mi sentirei di guidare il pubblico secondo una lettura a senso unico.
L’importante è che ci si soffermi sulle foto, chiedendosi perché e non come.

In che senso?
Sono abituata alla domanda: “Come fai (tecnicamente) a realizzare queste immagini?”. Mi piacerebbe che mi si domandasse più spesso: “Perché hai fatto questa scena?”, “Cosa volevi dirci?”, “Cosa senti internamente quando costruisci questi progetti?”.
Questo è il senso: risponderei molto più volentieri sul perché e non sul come. Se poi quello che le persone vedono riesce a smuovere in loro qualche interrogativo emozionale, ne sarei felice.

In questo articolo presentiamo alcune immagini del progetto “Piombo e oro”, dedicato alla mitologia: raccontami delle sue origini.
Tutto è cominciato quattro anni fa in un momento molto difficile della mia esistenza: tra le altre cose mi ero resa conto di essere oggetto di stalking… Era tutto talmente complicato che cominciai a percepirmi dis-integrata: sentivo che le mie emozioni e i miei sentimenti non riuscivano a coesistere. Si trattava di conflitti molto risalenti nel tempo.
Sono stata infatti educata (ma forse la parola giusta sarebbe “addestrata”) in modo estremamente competitivo. Mio padre, che pur amandomi molto aveva una predilezione per i maschi, mi ha inculcato l’ambizione di dovere essere sempre migliore di qualcun altro, mettendomi talora in competizione perfino con i miei fratelli. Così ho sempre pensato che per essere all’altezza delle aspettative dovevo adeguarmi al mondo circostante, tenendo a freno i miei desideri e tralasciando me stessa.
Quattro anni fa decisi di intraprendere un percorso terapeutico, che mi permise di comprendere e accettare tutte le mie peculiarità, comprensive di difetti e pregi, e mi portò ad abbracciare l’idea che la perfezione non esiste. L’analisi non ti fa diventare una persona diversa, ma ti aiuta a riconoscere le tue emozioni e a combatterle se è necessario.  
Uno dei principali argomenti dell’analisi si concentrò sulla domanda: “Perché gli uomini aspirano così tanto agli dèi?”. La mia risposta fu che negli dèi si cerca un ideale di perfezione che non esiste, perché neanche loro lo sono.

È grazie a questo percorso, quindi, che è nato il progetto?
Sì. Mentre ero in analisi, ho sentito forte l’esigenza di fotografarmi, per oggettivizzare quello che sentivo in quei momenti. Scattai anche diverse foto a mio figlio Emanuele e scelsi quella che in seguito sarebbe diventata la prima immagine del progetto (Hector - Immanuel).
Mi piaceva molto l’atteggiamento del soggetto con le braccia che si cingono e il capo reclinato quasi in segno di resa. Il laccio sotto la spalla mi faceva pensare a qualcosa di antico e ancestrale, così gli disegnai un elmo sulla testa e, a chiusura, delle foglie. Immediatamente mi venne in mente   che poteva essere Ettore, l’eroe dall’elmo ondeggiante. Da quel momento è partito un progetto sulla mitologia in chiave moderna, costituito da 19 immagini. Ogni personaggio mitologico contiene una fragilità che, inutile dirlo, è stata da me sperimentata.

Perché lo hai intitolato “Piombo e oro”?
Il significato è molto semplice: il metallo nobile (l’oro) allude ai pregi, mentre il piombo allude ai difetti. Una casa editrice me l’ha pubblicato per intero in volume, ma devo confessare che non sono rimasta soddisfatta del risultato e sto pensando il da farsi.

Chi hai scelto come modelli?
In questo progetto molto personale, i soggetti maschili sono stati tutti interpretati da mio figlio Emanuele, che oltre a frequentare l’università si dedica al teatro già da molti anni: sa bene quindi come esprimere un personaggio e molto spesso è lui a darmi suggerimenti.
I personaggi femminili sono interpretati tutti da me, tranne in una foto che si intitola “Giocasta - Disarmo” che è impersonata da Claudia, una mia compagna del liceo.
Per altri progetti utilizzo mie amiche (le donne si fanno fotografare molto volentieri), oppure chiunque si senta di farlo: non ho criteri rigorosi, se non un minimo di gradevolezza estetica e la voglia di giocare.

L’immagine “Zeus - Il Processo” mi ha molto colpito, anche per il testo che l’accompagna. Mi sembra molto personale.
Tieni presente che il primo titolo è quello che identifica la foto e il secondo è il titolo dello scritto.
Nella fotografia ho rappresentato il Padre degli Dei, che per definizione dovrebbe essere il creatore di tutte le cose e che però nell’immagine indossa un elmo, che di fatto gli inibisce la vista del mondo nella sua complessità. È impegnato a guardare solo una porzione del mondo, quella più ricca ed “evoluta”, escludendosi dalla visione di una parte dove perdura la povertà, la guerra, lo schiavismo.
Nello scritto parlo del rapporto con mio padre e della sua morte, di cui sono riuscita a darmi una ragione solo dopo molto tempo. Ho cercato di raccontare con brevi tratti quello che ha voluto trasmettermi e il dispiacere di non aver potuto chiedergli delle cose (papà si è sentito male e in pochi giorni è venuto a mancare). Faccio riferimento alla “corona castrense”, che veniva concessa ai condottieri che negli assedi si erano mostrati più coraggiosi, entrando per primi nella città da espugnare. 

Non solo Zeus, ma tutte le foto sono precedute da testi. In che relazione sono con le immagini?
Penso sia importante per un artista cercare di accostarsi a chi osserverà il suo lavoro, ossia sforzarsi di accorciare le distanze tra i rispettivi mondi, utilizzando, se utili allo scopo, anche “codici” diversi. Per questo ho voluto aggiungere dei racconti che aiutassero la comprensione delle immagini, interpretando mediante parole il sentimento primario che incarnavano i personaggi ritratti: odio, amore, rabbia, dolore, noia… Quelle narrate sono emozioni ed esperienze personali, come lo sono quelle rappresentate dalle immagini: l’obiettico, in entrambi i casi, è che chi legge/osserva riesca a riconoscere se stesso. 

Se ti va, spiega qualcosa anche delle altre immagini che qui presentiamo.
Nella foto Crono – Canone inverso Moebius, il soggetto ritratto è un uomo che ha una porzione di viso con la barba e i capelli bianchi. La porzione glabra è alla luce del sole, guarda una clessidra, mentre gli uccelli volano via, portando via anche la vita.
Nel racconto volevo rappresentare un padre che negli anni è stato assente per la famiglia, concentrato com’era tutto su se stesso. Ora sta ripercorrendo la sua esistenza, con i rimpianti e i rimorsi del caso. Il titolo fa riferimento al canone inverso di Bach, un pezzo breve che può essere suonato in entrambe le direzioni, e al nastro di Moebius.
Per le altre tre foto, mi è molto cara l’immagine di Ettore – Immanuel di cui ho già parlato prima, che è stata la prima a dare il via al progetto. Vedo purezza nell’animo di questo eroe (mi riesce impossibile non accostarlo alla giovane età di mio figlio, anche il titolo fa riferimento a lui).
È uno dei pochi miti che ci viene riportato ancora oggi come un personaggio positivo.
Egli sa che contro Achille morirà e nonostante questo non esita a combattere.
Decodificare Achille – Schidion (in greco “Schidion” significa schegge) è forse più semplice. Nella foto ho cercato di rappresentare la rabbia cieca e devastante di Achille per la morte di Patroclo. Dalla sua testa di Achille si irraggia un’esplosione di furore, che potrebbe anche essere interpretata come un motore. Il dolore è un motore.
Nel testo ho rievocato il senso di frustrazione durante le mie sedute terapeutiche, quando mi sentivo ancora imbrigliata in certe dinamiche che non riuscivo a sciogliere, nonché il desiderio di ottenere una vita serena, mentre stavo scontrandomi con tutti i miei demoni interiori.
Icaro – Oro Liquido è nata un pomeriggio di due anni fa. Il cielo era nuvoloso, ma c’era una luce bellissima. Così con Emanuele siamo saliti sulla terrazza, abbiamo messo dei teli neri e lui a un certo punto ha preso quella posizione. Icaro ha una natura ambigua: rappresenta l’arroganza, ma anche la curiosità, il coraggio di tentare di elevarsi al cielo.
Le altre immagini, vorrei che gli spettatori provassero a interpretarle da sé, senza chiave.

Certo: è giusto che ora comincino a camminare con le loro gambe. Per concludere, coloro che osserveranno le immagini proposte forse avranno come me l’impressione che, legando così intimamente il testo alle foto, tu, come Stieglitz, aspiri a un’arte unica: letteratura, fotografia e pittura. Magari anche musica.
L’Arte è una cosa sola, ma racchiude diverse discipline al suo interno. Devo dire che non riesco proprio a concepire il progetto sui miti sganciato dalle parole.
Il massimo per me sarebbe realizzare una mostra, con un attore che legge alcuni brani dei testi con un sottofondo musicale magari di Bach o Mozart. Ma non disdegnerei neanche qualche autore modernissimo.
Questo per dire che la bellezza non conosce confini e la bellezza è l’unica che, portando armonia nel mondo, porta anche la pace. 


Zeus ©Anna Celani

Zeus – Il processo

Caro E.,
Sei mesi fa mio padre è morto.
È caduto da cavallo e la sua corona castrense è scivolata tra i massi rocciosi ed è rimasta immobile.  Le punte erano rivolte contro la terra, scoprendo l’anello che cingeva la testa ed era un enorme buco vuoto.
Ho potuto vederlo appena prima della cerimonia funebre, ho sfiorato la sua fronte con le labbra, non tradiva paura, né dolore ed era indomito, come in ogni gesto che aveva accompagnato la sua vita. L’ho salutato come si conviene a una figlia che aveva portato rispetto e amore.
Sono rientrata a casa, ma la mia casa non era la stessa: ho guardato l’enorme dipinto del diavolo sospeso tra due mori Veneziani e il suo sguardo spietato assumeva colori infuocati.
L’”azzardo”, come amava definirlo mio padre, non aveva più il piglio ardimentoso che mi aveva colpito, mi squadrava come un enorme censore, mentre puntava il dito sulle mie innumerevoli imperfezioni.
Mio padre è morto e se avessi voluto fotografare quei momenti, mi sarei immaginata immobile di fronte a un’immensa onda che mi avrebbe travolta trascinando con sé detriti, fango, animali, me e quanto avrebbe trovato nell’infrangersi oltre la terra ferma.
Non riuscivo a perdonare e a perdonarmi la sua morte.
Ho percorso i momenti in cui investiva tutti con la sua impetuosità, i momenti in cui non riuscivo a consolarlo e a dimenticarmi che avesse amato mia madre più di me.
Ricordo il nostro natante sospeso nel mare in tempesta e la sua paura che battessimo contro gli scogli.
Mio padre è morto ed era l’approdo nei miei momenti bui, la rete nella quale potevo sprofondare senza paura.
Rammento bene i giorni in cui, grave, decise che un cavallo vero avrebbe sostituito quello a dondolo. Il giorno che mi regalò un fucile contro gli uomini, costringendomi a conoscere la precisione dell’otturatore e la spietatezza del mirino.
Il giorno che a 16 anni mi scagliò nel mondo e quando tornai silenziosa per la paura di avere sbagliato.
Ricordo di avere venerato un re e di non avere amato un uomo.
Il re è spoglio. Viva il re. 


Crono ©Anna Celani

Crono – Canone inverso Moebius

Cara Francesca,
ti ringrazio per avermi reso partecipe degli ultimi avvenimenti.
Qui la vita scorre lenta, sembra svogliata eppure desiderosa di un afflato di vita. Mi sembra di aspettare il palpito del rintocco, il primo bruciante appuntamento d’amore o l’esito di un esame.
Da ragazzo sbranavo i minuti.
Mi conosci, sono uno che resiste, non riesco a guardarmi indietro se non per trarre vantaggio per la mia vita futura. Sono un senza dio o forse ne venero troppi perché in ognuno di loro so riconoscere me stesso e mettere in dubbio le mie capacità o esaltarne altre.
Ho sempre avuto l’insopportabile abitudine di guardare fuori di me, senza riuscire con onestà a rimproverarmi.
L’altro giorno, mentre preparavo il caffè, pensavo alla mia esistenza che ho sempre creduto essere così grandiosa, invece a posteriori, mi sono reso conto di essere stato solo una piccola rondella di un meccanismo più grande che fa la differenza solamente quando si inceppa.
In quel momento mi sono fermamente convinto di essere un intermezzo di vita tra te e mia madre. Ho cercato di fare il possibile per non avere rimpianti una volta giunto alla mia età. Adesso mi accorgo di aver vissuto di rimorsi perché ho danzato come un derviscio, senza le sublimi intenzioni di questi.
Non c’è nulla di eroico nel bramare la libertà dalle persone che hai scelto e che morirebbero per te e l’affare più penoso è che nulla di grande muoveva i miei sensi: ho guardato la vita correre perché correvo io stesso e perché cedevo alla bellezza in qualsiasi forma essa si fosse presentata.
Oggi come allora, è trattenere l’acqua del mare tra le mani come quando ero bambino, nelle inoperose giornate d’estate.
La bellezza non sono più le curve di una donna, le parole audaci di un’avventura su un treno o anche le lusinghe di un guadagno facile.
Oggi vivo della visita di un amico, dell’odore fragrante del pane e immagino ancora le mie dita che percorrono i fianchi di tua madre mentre capitolava alle mie carezze.
Ti bacio, Francesca.
Bacia i tuoi figli per me.
Tuo padre.


Arianna ©Anna Celani

Arianna – La quiete nell’attesa

In un minuto ho saputo che c’eri.
È stato difficile abbandonarmi e andarmene da tutti i problemi posti, dalla durezza spacciata per quotidianità, da quest’albero luminoso e indisponente che avrebbe voluto entrare in casa dalla finestra della camera da letto.
Ho capito che bastava volgere lo sguardo per capire che la vita si trovava in qualunque posto volessi cercarla, per questo il biancospino un giorno ha sfondato i vetri della mia stanza.
Nonostante la paura ho ordito una corda di rosso alizarina e te ne ho dato un capo, l’altro è rimasto legato al mio polso perché non volevo perdermi: così sono entrata con un piccolo pugnale in un labirinto e ho tagliato le gomene che ancoravano gli incubi e le promesse mai mantenute.
Non ho mai abbassato lo sguardo ma tendevo la fune per sentire se esistevi ancora.
Mi facevo coraggio ripensando a quei momenti in cui crollavamo alle reciproche lusinghe, la tenerezza che provavo quando dormivi raggomitolato con la testa sul mio ventre.
I brevi attimi in cui guardandoci, i nostri occhi si facevano grandi e liquidi e le ruote dell’auto scorrevano docili.
Quando tornai da te avevi preso il largo.
Da lontano vedevo che avevi orientato le scotte perché le vele si erano gonfiate offrendosi provocatorie ai miei giorni di digiuno. 


Hector ©Anna Celani

Hector – Immanuel

Quando nascerai io sarò accanto al tuo corpo abbandonato al sonno.
Mi accosterò silenziosa e nasconderò il viso in te, annuserò il tuo respiro e le tue labbra protese.
I tuoi occhi chiusi saranno due immensi tagli neri.
Le tue mani nel sonno inconsapevolmente cercheranno le mie e la tua bocca svelata sarà travolta dall’incoscienza.
Nella tenerezza, nella resa alla tua innocenza scoprirò finalmente l’armonia e la bellezza che non ho mai avuto. 
Quando vorrai gettarti nel precipizio dell’esistenza, volerò estatica in grandi cerchi concentrici, affascinata dai tuoi gesti.
Così che non potrai, non potrai mai perdermi. 


Achille ©Anna Celani

Achille - Schìdion

Questo maledetto bamboccio azzimato che mi fa entrare nel suo studio, mi fa accomodare sul lettino e mi parla come se avessi sei anni: “Sua madre e Suo padre e la sua inadeguatezza” e il diavolo che ti stramaledica mi ripeto, mentre fisso lo sguardo sul ghirigoro del soffitto.
Dici sempre le stesse cose quasi non ci fosse un domani, con la stessa enfasi, le stesse parole, lo stesso tono di voce.
E poi il valore personale, il senso di vuoto, lo scambio dei piani, i desideri.
Ma perché, cazzo, non mi dai mai delle risposte? Dottore dei miei stivali che rimani lì a prendere appunti che quanto esco da qui, ho le idee più sconnesse di quando sono entrato.
Mi urta il tuo tono di voce che non si scompone mai, sento solo dei sospiri quando dico qualcosa che ritieni sbagliato e mi verrebbe di girarmi e incendiarti con un lanciafiamme.
Oggi mentre venivo con la metropolitana c’era una coppia che si baciava e sembravano gli ultimi sopravvissuti di una guerra nucleare. Si abbracciavano come se questo treno andasse a schiantarsi contro le porte dell’inferno e i viaggiatori li guardavano bisbigliandosi nelle orecchie neanche stessero praticando il più terribile dei crimini.
Li ho ammirati perchè vesto dei panni che non mi appartengono.
Ti ascolto e sembri un pretino agghindato che recita la messa di Pasqua, mi fai domande alle quali non voglio rispondere e quando rispondo non ti piace perché vorresti che capissi delle cose che non posso intendere.
Dici che mi sento un uccello in gabbia e che devo “cantare” all’unisono con le persone che amo.
Mi fa male il cervello, mi sconnetto da questa moltitudine di stronzate, mentre continui a chiacchierare da solo.
Questo mondo mi fa schifo e  sogno solo di esplodere.


Giocasta ©Anna Celani

Giocasta - Disarmo

Un colpo secco e cattivo riecheggiò nel bosco.
La lupa fu colpita al fianco ma si divincolò istintivamente dalla stretta dello sgomento. Si contorse dal dolore e con un balzo fu fuori dalla radura e guadagnò terreno.
Vide le sue zampe correre, inciampare. Cadde ripetutamente, si rialzò.
Poi rallentò il passo per riprendere fiato ma sbatté violentemente il muso a terra, annullò la volontà di arrendersi al dolore e alla paura. E corse fino al groviglio di rami che la condussero all’imbocco della tana. E lì, in quel grembo materno, svenne.
Anouk aprì gli occhi. Un dolore sordo al ventre.
Si alzò inquieta dall’acqua, allungò le mani verso l’accappatoio. Lo indossò, scavalcò la vasca e posò i piedi sul tappetino.
Le tremavano le mani. Per qualche attimo si abbracciò reclinando il capo per baciarsi la spalla e sentirne la fragranza. Una goccia di sangue le calò lungo la gamba e ne avvertì immediatamente l’odore ferroso.
Allungò la mano e lo raccolse, senza neanche rendersene conto, portò il fluido alla bocca e lo leccò. 


Icaro ©Anna Celani

Icaro – Oro liquido

Ho acquistato una moto PKH ANTARUS Race.
La definiscono un purosangue da corsa, ha il telaio in carbonio in architettura monoscocca dal peso di 8,2 chili. Anche le ruote sono in carbonio ed è più leggera delle attuali moto da corsa ufficiali del mondiale Superbike. Pesa solo poco di più delle moto ufficiali di MotoGP.
Questa moto vola, altrochè.
Esco  dal centro abitato: case sempre più piccole, poi alberi ai fianchi delle strade e poi chilometri e chilometri di strada.
Niente casco.
La corsa è un narcotico, il vento un abbraccio, resisto e mi oppongo alla raffica piegando il capo e fendendo l’aria. I capelli scivolano e si stendono  e poi frenando mi ricadono sugli occhi.
Riprendo urlando mentre il motore  rimbomba e rimbalza fino dentro le ossa. Gli ammortizzatori e i freni padroneggiano sugli itinerari cattivi.
Sono leggera mentre guardo l’ombra disegnata a terra, mi stacco dal mondo, le correnti d’aria e la velocità trascinano  i capelli in su.
Qui non esistono orologi nè spazi. Mi  concentro sul percorso, la linea di mezzeria mi violenta gli occhi: queste sono le strade di tuono cantate da Bruce e  non esiste altro. Mi percepisco un tutt’uno col mezzo e non ci sono per una volta piani da ricordare, appuntamenti da onorare, impegni imposti e orari da rispettare.
Mi vedrete sfrecciare e diventare piccolissima verso il crepuscolo incontro l’unica via di fuga.


Anna Celani

Nasce a Roma, città che influisce sin da bambina sul suo spirito artistico.
Comincia quasi subito a interessarsi alla pittura e alla fotografia partecipando ai lavori della madre, pittrice e fotografa, e sfruttando la Zeiss Ikon di quest’ultima.
Nel 2016 approda di fatto in ambito artistico, trasformando la sua passione per le immagini in foto e pitture che fonde insieme. È affascinata da visioni surreali, che negano il mondo e lo ricreano attraverso la sua personale concezione.
All’attivo ha mostre sia personali - tra cui “Intueor” (Villa Fenaroli, Brescia, giugno/luglio 2016) e “Il bianco e il rosso” (Urbanspa, Brescia, ottobre 2016) - sia collettive. Ha esposto i suoi lavori anche a Barcellona, Roma, Viterbo e Firenze.
Le è stato dedicato un articolo sulla testata giornalistica “Popolis” e una sua immagine è stata scelta per il periodico “EUR Magazine” di Roma.  Ha pubblicato con la rivista Xart.
Nel 2020 ha partecipato al Festival della Fotografia “Segni” di Capo di Ponte.

Anna Celani

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