This is us: la felice rivelazione dei Pearson

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Happyfania

| Andrea Negro

Nei corridoi di un paio di piattaforme digitali a pagamento si aggira una serie TV che non si nutre di sangue, soldi, sesso o distopie. Parlo di This is us, la cui quinta stagione è in onda attualmente sui canali Fox di Sky, mentre le prime quattro rimpolpano il palinsesto di Amazon Prime Video. 

Ad osservarlo bene, This is us è una distopia mascherata: manca l’evidenza di una surrealtà artefatta data per presupposta, di uno scenario “altro” in cui dipanare le vicende dei protagonisti. Non si sviluppa in contesti fantastici come Il trono di spade, in epoche imprecisate o futuribili come Westworld, non dipinge la storia come avrebbe potuto essere se, come L’uomo nell’alto castello. Tuttavia, nella quotidianità della famiglia Pearson, si nasconde un mondo ideale che appartiene più alle nostre aspettative che alle nostre giornate, un non-luogo domestico già rappresentato nei telefilm a cavallo tra i ’70 e gli ’80. I Pearson sono i Cunningham moderni, la famiglia virtuale tanto perfetta quanto irrealizzabile.

Oltre alle inevitabili differenze tecniche di ripresa, c’è però una divaricazione sostanziale rispetto alle avventure di Happy Days: lì i personaggi erano monocromatici, Ricky era il bravo ragazzo, Potsie l’ingenuo, Ralph il pagliaccio, Fonzie il duro; ogni frase, ogni espressione, ogni posa ne alimentava il ruolo di archetipo rispetto al modello umano assegnato. In This is us, pur mantenendo una precisa coerenza caratteriale che li connota e li distingue uno dall’altro, figli, genitori, mogli e mariti sono ondivaghi, sfaccettati, spesso vulnerabili. Tutti i Pearson hanno una loro personalità, ma caleidoscopica e contaminata dalle personalità altrui e dai fatti. È questa una delle forze della serie, enfatizzata dalla bravura degli attori, in grado di arricchire, scandagliare e rimescolare l’animo dei propri personaggi; su tutti Sterling K. Brown, non a caso vincitore di un Golden Globe per il suo Randall, e Mandy Moore, cantante folk-pop da anni prestata con successo alla recitazione e mamma Rebecca nella serie. 

Un secondo valore aggiunto del prodotto nbc sta negli argomenti affrontati, perché This is us abbraccia qualsiasi risvolto socio-personale, sempre in punta di piedi, sempre “normalizzando”: una figlia di Randall è omosessuale, un’altra è adottiva, lui stesso vive un complicato rapporto col suo essere nero in una famiglia e comunità di bianchi, quel concetto di transrazzialità che fatichiamo a comprendere in Italia, ma che negli USA è ingrediente politico di rilievo; tra le vicende della sorella Kate si scorgono aborto, bulimia, fecondazione artificiale; Rebecca soffre di una forma incipiente di Alzheimer; e vengono toccate droga, violenza domestica, lotta di classe. Un’ingombrante parte in commedia la svolge l’alcolismo, forse la piaga più subdola e temuta dall’americano medio; ne sono affetti Jack Pierson, il capostipite, Kevin, uno dei suoi tre figli, Nicky, suo fratello.

In tale sovraesposizione tematica è incombente il rischio di una melassa sentimentale che erga ogni personaggio ad eroe positivo, impregnato dei valori assoluti di un Disney o di uno Spielberg. Un eroe capace di vincere i propri limiti, le proprie dipendenze, di accettare la propria natura grazie alla forza di volontà e al supporto della famiglia, degli amici, di un’intera nazione progressista e inclusiva. Eppure ogni puntata di This is us, anche la più emozionale, allontana la gabbia della retorica con maestria, puntando sul rigore della regia e della scrittura. 

L’artificio filmico più efficace, forse la caratteristica maggiormente innovativa della serie, è la continua, frenetica alternanza di tempi e luoghi del racconto. A partire dal filone principale, che vede i tre fratelli Randall, Kevin e Kate quarantenni e orfani del padre Jack, si viene catapultati in un otto volante di flash-back, flash-forward, cambi di scena, sovrapposizioni, in cui la figura di Jack assume centralità dirimente attraverso eventi che coprono un arco di più o meno trent’anni. Grazie al sapiente mosaico atemporale di accadimenti vari, personaggi creduti scomparsi riemergono; storie e riferimenti difficili da cogliere si colgono. Il tutto in un flusso di rimandi, echi passati, visioni future, scorci di contemporaneità, da assecondare e assaporare come un unicum narrativo.

Essenziale risulta l’accuratezza del montaggio, operazione mai così decisiva nella resa di una serie TV. Così come risolutiva è la scelta di non specificare mai tempo e luogo dell’azione, evitando quelle fastidiose didascalie tanto utilizzate altrove per istruire lo spettatore su anno e città di ogni singola scena, a scongiurare il pericolo che perda la bussola della storia. This is us non vuole addomesticare chi guarda, piuttosto accompagnarlo da una Philadelphia del 2020 ad una Pittsburgh del 1980 ad una California del 2000, confidando nella sua attenzione nel seguire i passaggi; e il miracolo riesce, lo spettatore sa sempre dove si trova e in quale periodo storico, anche senza scritte aggiuntive sullo schermo. Molto si deve alla meticolosità dei cambi di ambientazione, alle acconciature, ai vestiti, ai richiami di avvenimenti epocali, ad una produzione scrupolosa sotto la guida attenta e a suo modo geniale di Dan Fogelman, l’autore della serie. 

Menzione speciale per dialoghi e intreccio drammaturgico, mai scontati, mai ridondanti, mai ostaggio del colpo di scena a tutti i costi: i fatti in This is us accadono lentamente, con una leggerezza disarmante, figlia di una voglia di raccontare per situazioni, per relazioni, per parallelismi e analogie di destino tra la famiglia di Jack e le famiglie di Randall, Kevin e Kate. Si mostrano le cene dei Pearson, le gite dei Pearson, le partite a baseball dei Pearson, senza la preoccupazione di annoiare o tergiversare: tutto è già trama. Anche in questo la saga prende le distanze dalla gran parte dei prodotti seriali attuali, imperniati sul susseguirsi di accadimenti eclatanti e decisivi. 

Tra le pieghe della vita dei Pearson c’è molta America, presente e passata, George Floyd e Vietnam, Iraq e Obama, e non si fanno sconti. La stagione in onda ora su Fox guada con naturalezza la maledizione fangosa del Covid-19, calando le faccende dei protagonisti in logiche del tutto accettate di distanziamento e mascherine, a sottolinearne la presenza nella vita di tutti e quindi anche dei Pearson.

In ciò intravedo la difficoltà maggiore di un’eventuale versione italiana della serie, intitolata Noi, ipotesi di cui si parla con insistenza sui media di settore: non so davvero quanto sarebbe disposto il pubblico nostrano a veder rappresentata con tanta disinvoltura la pandemia o quanto sarebbero bravi gli sceneggiatori a far scorrere quarant’anni di magagne italiche su canali paralleli e intersecati alle vicende dei protagonisti, lasciandoli fluire quando serve come fiumi carsici che affiorano in superficie. Temo un’operazione tutta volemose bene, modello L’allieva o Tutto può succedere, fiction ben confezionate ma lontane dalla soave profondità di This is us. Una profondità introspettiva ed emotiva, perfettamente incarnata dalla preghiera ripetuta di un Jack Pearson quarantenne alle prese col demone dell’alcool: “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare e la saggezza per riconoscere la differenza”.

 

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