R.E.M. Out Of Time

Referenze

Fuori dal tempo

| Andrea Negro

Nel 1991 ero un ventiduenne irrisolto che cercava quadrature nella Giurisprudenza e conforto nella musica. Quell’anno fui bastonato dalla prima, ma parecchio coccolato dalla seconda; tralasciando altre perle, uscirono Achtung Baby di Bono&Co., Nevermind e Ten dalla fucina di Seattle e Blood Sugar Sex Magik, il manifesto dei Red Hot Chili Peppers: quattro capolavori assoluti con cui il rock si stava finalmente riprendendo la scena dopo l’orgia sintetica degli Ottanta. La data che però s’impresse per sempre nella memoria è il 12 marzo, oggi. È il giorno in cui la Warner regalò al mondo Out of time, settima creatura in studio dei R.E.M., album da diciotto milioni di copie vendute, quando i dischi si vendevano ancora.

Meno bello, forse, del successivo Automatic for the people, Out of time è certamente il più significativo lavoro di Stipe e soci, quello che ne certificò la statura di rock-band planetaria al pari di poche altre, i citati U2, i Queen - ahimé ancora per poco – e gli Stones, già piuttosto frolli. La Warner l’anno prima aveva scippato i R.E.M. all’indipendente I.R.S. Records, intuendo come il successo nel 1987 di Document, aiutato da hit quali It’s the end of the world as we know it – poi maltrattata da Ligabue – e The one I love, preludesse all’esplosione definitiva del gruppo. Il cambio di etichetta fu decisione consapevole: con cinque dischi e un decennio di gavetta alle spalle, i quattro ragazzi di Athens, Georgia, erano uomini ormai e affamati di notorietà. Più volte Stipe ha ammesso di aver considerato i suoi trent’anni un bivio: da una parte la via maestra della fama mondiale, lastricata di compromessi e possibili abiure, dall’altra il sentiero orgoglioso della coerenza stilistico-espressiva, che avrebbe confinato per sempre lui e i suoi compagni nella nicchia dell’indie americano. Scelsero la gloria e fu un bene per tutti.

Ci volle coraggio, però. Ci volle coraggio a sfidare l’epica compiaciuta di Bono, l’istrionismo collaudato di Jagger e Mercury, il crepuscolarismo muscolare degli emergenti Cobain e Vedder, armati solo di quelle facce pulite da universitari bohémiens, di quei testi indecifrabili e provocatori, di quella musica minimalista che accoglieva e rimodellava tutto, dal punk al country. Ci volle coraggio a fermarsi per tre anni dopo Green, l’album del 1988 che sancì il passaggio alla Warner, quando chiunque avrebbe cavalcato l’onda e la potenza di fuoco della major per sfornare un blockbuster dopo l’altro. Ci volle coraggio ad evolvere senza rinnegarsi, a trasmigrare l’alternative delle origini in un folk-rock mainstream che accalappiasse tutti senza tradire nessuno. Quel coraggio si chiama Out of time

È un disco di contrappesi, le tracce impopolari e difficili sono riequilibrate da quelle più immediate e cantabili; è un disco omogeneo, ma era la regola per quei tempi, quando gli LP non erano sciatte accozzaglie di singoli, bensì progetti rigorosi e articolati. Soprattutto, è un disco di gemme rare: nove brani su undici sono finiti sul mio cellulare, è record (escluse solo Texarkana e Belong, nella prima canta Mills che non è Stipe, la seconda è troppo ferma e parlata per fare la differenza).

Entriamoci dentro.

Radio Song

È la prima traccia e l’unica ad avere un tema chiaro e altro rispetto alle riflessioni emozional-decadenti che permeano l’album. Si denunciano i brani “sing-song”, quelli pensati per le radio; quelli che corrompono la funzione salvifica e purificatrice della musica. C’è già tutto nei primi quattro versi:

The world is collapsing
Around our ears
I turned up the radio
But I can’t hear it 

È il 1991, il muro caduto da poco, l’U.R.S.S. in disfacimento, la Guerra del golfo appena terminata. Non è un caso che Radio song apra i giochi, perché Stipe vuole sgombrare subito il campo da ogni potenziale accusa di consumismo discografico: i R.E.M. manterranno il loro impegno anche politico, non scriveranno canzoni commerciali solo per i lustrini dello star-system o le casse dell’etichetta, non faciliteranno l’ascolto o la fruizione delle canzoni, non compiaceranno vecchi e nuovi fan. Hanno firmato per la Warner ma restano indipendenti, antistar, normalissimi bianchi americani del Sud che portano pure gli occhiali! E prova ne sia che, anche stavolta, CD e LP non contengono i testi e la copertina è di una scarnezza, disarmante ancorché suggestiva. Melodicamente la canzone è fresca, diretta, echi di INXS nel funky agile delle strofe e atmosfere sospese tra gli archi dell’inciso, un’ingegnosa costruzione ad alternanze che tornerà più volte nell’album. Dovessi scegliere una parola sola per definirla, direi “bipolare”. 

Losing my religion

Cosa ne sarebbe stato di Out of time senza Losing my religion? Di più, cosa ne sarebbe stato dei R.E.M. senza Losing my religion? Non lo sapremo mai. Sappiamo però come questi quattro minuti e ventinove secondi, solidi, filanti, nervosi, siano entrati di diritto nell’empireo delle pop-song anni Novanta e forse oltre. I R.E.M. erano musicisti modesti, niente a che vedere con Zeppelin e neppure con Soundgarden e Waterboys, per restare ai loro contemporanei; tuttavia ottimizzavano le proprie, ridotte risorse per produrre compattezza sonora, in questo sublimando il concetto di band. L’approccio “collettivo” emerge anche dal celebre videoclip del brano, che tanto ha contribuito a dargli risonanza: al netto dei suoi movimenti volutamente sgraziati e di qualche primo piano, Stipe non fagocita gli altri e l’impressione è di una squadra di artigiani al servizio del manufatto; Mills, Berry e Buck, seppur in controcampo, compaiono spesso e buona parte del cortometraggio scivola sulle immagini oniriche di Tarsem Singh.

Ad analizzarla bene, Losing my religion non avrebbe mai dovuto avere successo, almeno non con quelle proporzioni: lo strumento portante è il mandolino, il mandolino! Trovatemi un attrezzo meno rock del mandolino, roba da Reginella o bluegrass dell’Arkansas. Non ha un vero ritornello da cantare a squarciagola, che so “In the name of love, what more in the name of love”. Si ferma a metà, interrompendo bruscamente il flusso. E parla di cose misteriose. Qui sta il suo segreto, forse. In Italia assorbiamo i testi anglosassoni in modo onomatopeico, per pigrizia o ignoranza non ci addentriamo nel loro significato, ci accontentiamo di riprodurne il suono mentre scorre la musica. Chi l’inglese lo parla tutti i giorni Losing my religion la traduce e la vive: milioni di ragazzi americani, scozzesi, australiani si sono immedesimati e si immedesimano ancora in quell’uomo angosciato dall’incomunicabilità, col mondo, con l’amore, con se stesso:

I thought that I heard you laughing
I thought that I heard you sing
I think I thought I saw you try

Ho letto molte e autorevoli interpretazioni dello Stipe-pensiero, nessuno però fa menzione di un paio di aspetti interessanti. Nel video, un fotogramma ritrae un paio di uomini col colbacco e una bandiera rossa sullo sfondo: forse la perdita della fede e l’ossessivo accenno al sogno si riferiscono all’utopia comunista in via di fallimento; già in Reckoning del 1984 i R.E.M. citavano Lenin e U.R.S.S. Ancora, di lì a pochi anni Stipe avrebbe rivelato la propria bisessualità: che il travaglio del protagonista sia in realtà il suo nell’accettarsi, nel liberarsi dall’infelicità di una maschera? Qualsiasi sfumatura vogliamo dar loro, le parole sono dirompenti e, seppur tipiche della dialettica della band, suonano nuove per il panorama mainstream, abituato al machismo lirico di Bono o Springsteen. Se poi ci aggiungiamo la ritmica scandita di Berry e qualche furbo riempimento di pad, allora si fa più chiarezza sullo sbalorditivo riscontro di pubblico.

Enigmatica.

Low

Dovessero chiedermi quale brano rappresenti maggiormente i R.E.M., risponderei senza esitazioni Low. È il trionfo del chitarrismo di Peter Buck, semplice ma mai banale, appoggiato su accordi sporchi prima stoppati poi aperti poi richiusi, ereditati dal genio del Reed dei Velvet Underground e riplasmati sulla voce di Stipe. Michael all’inizio pesca nel pozzo delle sue timbriche più scure; quando cresce la tensione, sale di tono e si fa acido e potente, in perfetta simbiosi con i versi:

You and me
We know about time
We know how things go
They come and go
They live and grow
They pass and go
And glow and glow
Up and down
High and low 

Bisogna convivere con i cali di tensione dell’esistenza, delle relazioni, gli alti e i bassi. “I skipped the part about love, it seems so silly and low”: come a dire che lo squilibrio è parte integrante dell’amore. C’è tutta la poetica dei R.E.M. e senza batteria e basso, solo chitarre e un organo che Mills rende monumentale. Visionario anche il videoclip di Low, che non conoscevo: dategli un’occhiata, vale la pena.

Ipnotica. 

Shiny happy people

Kate Pierson (sì, come la protagonista oversize di This is us) è stata la cantante dei B-52’s, una gagliarda band post-punk di Athens - come i R.E.M. - famosa per Private Idaho, brano che ha ispirato molti, tra cui di certo i Knack di My Sharona. Mi azzardo a dire che sia lei il valore aggiunto di Shiny happy people. La Pierson cala nel brano una voce insieme elettrica e pulita, e nel video una presenza squillante e sbarazzina, un po’ Rita Hayworth, un po’ Wilma dei Flintstones; è tale la fascinazione di Stipe e soci per le sue doti, che compare anche in Me in honey e Near wild heaven.

Shiny happy people trasuda vitalità, coi suoi rimandi alla Patti Smith di People have the power, ai riff più allegri di Johnny Marr, ai cori da boy scout dei Beach Boys. Sembrerebbe in evidente conflitto col clima introverso dell’album: in realtà fotografa un’altra sfaccettatura dei R.E.M., quella joie de vivre già apparsa in pillole in passato e destinata a caratterizzare diversi brani a venire. Che poi, a vivisezionarla per bene, si può anche pensare ad una immensa presa per i fondelli; musica, testo e immagini impaginano un inno all’amore, alla fratellanza, ma è tutto così ostentato da far credere ad una messinscena: i colori sgargianti del video, il cappellino storto di Stipe, i sorrisi dei ragazzi mentre ballano giulivi, lo stesso riferimento del titolo ad un popolo “felice e splendente”. E se i quattro avessero voluto comunicarci subliminalmente la stupidità della gioia? Se il vero messaggio si nascondesse nel valzer drammatico dell’introduzione, nella fatica inutile del vecchio che pedala una bicicletta inchiodata al pavimento, convinto di dare energia all’universo? Se Stipe avesse inteso delegare alla gente il compito di riempirlo della felicità che da solo non riusciva a generare? La questione rimane aperta, di certo c’è che il brano arriva, e arriva dopo quattro tracce che condividono una certa malinconia, quella immediatamente precedente, End of game, senza neanche una parola di testo e con un titolo piuttosto emblematico. 

Impertinente.

Half a world away

A proposito di valzer, il brano rispolvera la leggerezza dei tre quarti, che hanno sempre qualcosa di languido e taumaturgico, come pare evocare il verso “turn to a miracle”. I tempi dispari sono da sempre invisi al rock, ma praticati da altri generi, penso all’abuso che ne hanno fatto i Beirut: soltanto i Radiohead più maturi e talvolta i Coldplay gli hanno dato cittadinanza tra le chitarre, ma Martin fa rock? E Yorke, da quanto non lo pratica?

Half a world away è la mia traccia preferita di Out of time, una ninna nanna che culla dal primo all’ultimo respiro, la versione blues di Losing my religion con una prima frase da brividi: “This could be the saddest dusk I’ve ever seen”! Stipe, mai così melodico e morbido, ci svela che qualcosa è andato storto, ma con fatica e speranza si va avanti, con mezzo mondo ancora da camminare.

Catartica.

Country feedback

Ho avuto la fortuna di vedere dal vivo i R.E.M. prima dello scioglimento del 2011. Era il 15 gennaio 2005 e il Forum di Assago ribolliva di aspettative. Mantennero le promesse e regalarono ai dodicimila presenti un concerto memorabile. Il momento più struggente, l’attacco di Country feedback: già sublime su disco, sul palco il brano acquistò subito una consistenza nuova, allucinata, che sfociò in un assolo infinito di Buck, colpevole di qualche stecca sì, ma anche di averci caricato tutti su un veliero verso l’isola che non c’era. E Stipe, la voce corrotta, slegata, non perfettamente intonata, ma disperata, ferrosa, lancinante nell’urlare quell’”It’s crazy what you could have had… I need this!. Ormai aveva fatto coming out e non c’erano più dubbi sul senso della frase, era pazzesco ciò cui aveva rinunciato, ma aveva bisogno di questo.

Musicalmente, con Country feedback raggiunge l’apice quella costante, inquieta rivisitazione del country in cui risiede l’identità sonora più autentica dei R.E.M. Qui si scioglie in una dimensione psichedelica - ancor più apprezzabile nella versione live - imbastardita dall’uso scorretto di chitarre slide e tremolo, drogata dagli armonici ululanti dei geniali “rimbalzi” tra amplificatori e pick-up, i feedback per l’appunto. E, su disco, ancora niente batteria, a testimonianza del loro coraggio espressivo.

Accorata.


Ci sarebbe ancora molto da raccontare su
Out of time, ma il più è detto. Resta solo da rammaricarsi per lo scioglimento prematuro della band, che ci ha lasciati orfani di un universo musicale minimalista, agrodolce, unico.  

 

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