Un «bizzarro androgino» a processo

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Un «bizzarro androgino» a processo

| Chiara Pasetti

Si è da poco festeggiato il bicentenario di nascita di Gustave Flaubert (12 dicembre 1821 - 8 maggio 1880), considerato il padre del romanzo moderno e uno dei massimi rappresentanti del naturalismo francese, benché egli non abbia mai voluto far parte di alcuna scuola ed essere incasellato in alcuna dottrina.

Foto di Flaubert scattata da Nadar

Figlio del medico chirurgo di Rouen, Flaubert esordisce nel mondo delle lettere all’età di trentacinque anni con il romanzo che è considerato il suo capolavoro, Madame Bovary, pubblicato in sei puntate sulla Revue de Paris tra l’ottobre e il dicembre del 1856… e già il 29 gennaio 1857 viene trascinato di fronte alla Sesta Camera Correzionale del Tribunale di Parigi («accanto agli imputati di infamia e ai ladri») con l’accusa di «oltraggio alla morale pubblica, alla religione e ai buoni costumi».
Bisogna innanzitutto precisare che la storia, oggi universalmente nota, della bella Emma Rouault (che diventa la signora Bovary sposando il «mediconzolo di campagna» Charles), una giovane rêveusecresciuta nutrendosi di romanzi d’amore, non era certo la prima che lo scrittore aveva composto. Alle sue spalle aveva già migliaia di pagine manoscritte di note, appunti, abbozzi, progetti, e molte opere mai pubblicate.
Nel 1849 aveva portato a termine la prima versione di un testo, «non un’opera teatrale e nemmeno un romanzo», a cui aveva lavorato «come un bue», La Tentazione di sant’Antonio. Com’era sua abitudine l’aveva letta «ad alta voce per quattro giorni consecutivi» agli amici Maxime Du Camp e Louis Bouilhet i quali, investendosi del ruolo di primi censori del futuro maestro di Rouen, sentenziarono che era «da gettare nel fuoco». La naturale tendenza di Flaubert alle «eccentricità filosofico-fantastiche», alla «sfuriata metafisica, mitologica», che debordavano senza freni in questo «delirio» dedicato al santo eremita vissuto nel deserto della Tebaide tra il III e il IV secolo dopo Cristo, andava secondo loro disciplinata in una storia più «moderna», dall’argomento e dall’ambientazione più banale, «terra terra». E come scriverà Baudelaire in uno degli articoli ancora oggi più acuti e suggestivi su Madame Bovary, «qual è il terreno della stupidità, l’ambiente più sciocco, quello maggiormente ricco di imbecilli intolleranti? La provincia! Qual è il dato più abusato, più prostituito? L’Adulterio!».
Flaubert, a malincuore, dà retta agli amici e prendendo spunto anche da diversi fatti di cronaca, al ritorno dal lungo viaggio in Oriente il 20 settembre 1851 annuncia all’amante Louise Colet di aver cominciato il suo romanzo, Madame Bovary appunto.
Ci vorranno cinque anni (e quasi duemila fogli di brutte) per portare a termine questo «tour de forcespaventoso» dove tutto lo «ripugna», a partire dall’ambiente borghese e dai personaggi mediocri.
Affida il suo manoscritto nella primavera del 1856 alla Revue de Paris, di cui è condirettore Du Camp. Da subito gli vengono imposti numerosi tagli: la Revue infatti, apertamente in opposizione al regime repubblicano e pertanto invisa al potere, teme che alcune scene «lascive» possano infastidire l’opinione pubblica.
Flaubert, sebbene adirato, ubbidisce: taglia, rivede, corregge. Ma non basta ancora. Du Camp, in una lettera del luglio dello stesso anno infarcita di superbia, ipocrisia e pavidità (sul retro della quale Flaubert scrive l’eloquente commento «Gigantesque!»), gli suggerisce perfidamente di lasciare a lui e al direttore Laurent-Pichat la facoltà di farsi «maestri» del suo romanzo e di operarne i tagli che ritengono «indispensabili». Vengono censurate la celebre scena dell’amplesso in carrozza di Emma e Léon (dove nulla è mostrato o esibito, e proprio per questo è magistralmente erotica), due dialoghi tra il farmacista e il curato, e l’intera scena dell’estrema unzione di Emma («copiata quasi letteralmente dal canonico Rituel de Paris», protesta allibito l’autore). Esemplare la lettera indirizzata da Flaubert al direttore stesso: «Sopprimendo il passo del fiacre non avete tolto nulla di ciò che è scandaloso. Vi attaccate ai dettagli, ma è all’insieme che bisogna guardare. Non si sbiancano i negri e non si cambia il sangue di un libro. Lo si può impoverire, ecco tutto».
Ciò che era davvero scandaloso, allora e oggi, era l’attacco all’autonomia della letteratura, che egli aveva sempre rivendicato, e la pretesa di subordinare l’estetica alla morale: «la morale dell’Arte consiste nella sua stessa bellezza» e la giustizia non dovrebbe tenere «dei corsi di letteratura in Corte d’Assise». 

Caricatura di Flaubert (A. Lemot in La Parodie, 5-12 dicembre 1869)

Tuttavia, da una questione che pareva avere l’aspetto di una querelle letteraria in nome del buon gusto, e nonostante le cautele prese dalla Revue, Madame Bovary finisce in tribunale. Per assisterlo Flaubert ha scelto un avvocato illustre, Monsieur Senard, originario come lui di Rouen e amico di famiglia; la requisitoria è condotta dal pubblico ministero, l’avvocato imperiale Pinard (lo stesso che, nell’agosto di quell’anno, farà condannare I Fiori del male di Baudelaire e dieci anni dopo diventerà Ministro dell’Interno ricevendo addirittura, come il farmacista Homais, la “Légion d’honneur”, apoteosi della mediocrità). Molto tempo dopo Flaubert scoprirà, ridendo sotto i baffi, che il «moralista immorale» Pinard si dilettava, in segreto, nella stesura di versi pornografici!
Ma se Flaubert, con la sua Madame Bovary, verrà assolto nel febbraio del 1857, nel momento in cui il manoscritto dei Fiori veniva consegnato all’editore Poulet-Malassis, al poeta toccherà una sorte diversa: il 20 agosto del 1857 Baudelaire sarà condannato a pagare un’ammenda di 300 franchi e soprattutto si vedrà censurate, delle tredici inizialmente incriminate, sei liriche.
L’avvocato di Flaubert e il pubblico ministero del suo processo fanno rima nel cognome, ironia della sorte, e non solo: nella loro ottusità orchestrano un duetto «di un grottesco sublime» sottomettendo l’opera alla stessa moralizzazione forzata, l’uno per stabilire che essa è oltremodo scandalosa, l’altro per dimostrare che è supremamente virtuosa. A una settimana dall’udienza, il 7 febbraio 1857 il processo è vinto, non senza un «biasimo severo» che denuncia attraverso Madame Bovaryl’impertinenza del suo «realismo volgare e urtante».
La verità è che il tribunale non fu in grado di condannare il libro perché lo stile di Flaubert non offriva appigli in virtù del caposaldo della sua estetica, l’impersonalità nell’opera, che fa sì che l’autore, «come Dio nella creazione, si senta dappertutto ma non lo si veda affatto», e di conseguenza che il lettore «si senta schiacciato senza sapere perché», dal momento che il nuovo canone estetico di Flaubert annulla giudizi morali sui personaggi e conduce il lettore ad una estraniante insicurezza di giudizio.

Isabelle Huppert è Madame Bovary nell'omonimo film di Claude Chabrol del 1991, da cui è tratta anche la foto di copertina dell'articolo

Nell’articolo che Baudelaire dedicò a Madame Bovary su L’Artiste si trova, tra le molte intuizioni, anche una celebrazione dell’autore e della sua protagonista, perfetta per spiegare uno dei tanti motivi del fascino che ancora oggi questo splendido, ambiguo, controverso romanzo suscita nel lettore di ogni luogo e di ogni tempo.
«Madame Bovary – una scommessa, una vera scommessa, una sfida, come tutte le opere d’arte, era stata creata. Non rimaneva all’autore, per compiere il suo tour de force nella sua interezza, che spogliarsi (quanto più possibile) del proprio sesso e farsi donna. Ne è risultata una meraviglia; il fatto è che, malgrado tutto il suo zelo di commediante, egli non ha potuto non infondere un sangue virile nelle vene della sua creatura e Madame Bovary, per tutto ciò che vi è in lei di più energico e di più ambizioso, e anche di più sognante, è rimasta un uomo. Come la Pallade armata uscita dal cervello di Zeus, questo bizzarro androgino ha conservato tutte le seduzioni di un’anima virile in un affascinante corpo femminile».
Madame Bovary, dopo il processo, guadagna un successo inaspettato e nell’aprile del 1857 il testo esce in due volumi per l’editore Michel Lévy, con le parti «amputate» finalmente ripristinate: «tutti la leggono o vogliono leggerla, la mia persecuzione mi ha aperto mille simpatie, e se il libro è destinato a restare le farà da piedistallo», scrive con orgoglio a suo fratello.
Emma Bovary - e il fenomeno patologico che da lei prende il nome, il bovarysmo, mirabilmente indagato da Jules de Gaultier, il quale lo definisce come la «facoltà di credersi diversi da ciò che si è» e dunque di non percepire lo scarto tra l’immaginario e il reale, tra ciò che ognuno è e ciò che crede di essere (con conseguenze spesso tragiche) - continua a «far sognare» i lettori di tutto il mondo.
La «petite femme» di Flaubert guadagnerà così l’immortalità; raffigurazione simbolica del tipico, emblema di una generazione (delle generazioni?) in crisi, e soprattutto icona eterna del desiderio inappagato e dell’anima inquieta che si nutre di sogni, in cui chiunque di noi può identificarsi, Emma «percorre il cerchio completo del mito, al principio e al termine della sacrosanta letteratura» (Yvan Leclerc).

Albert Fourié, La mort de Madame Bovary, 1883

Indicazioni bibliografiche minime.
Imperdibile è il primo volume delle Opere per I Meridiani Mondadori, che oltre al romanzo contiene gli atti del processo: G. Flaubert, Opere, vol. I, traduzione di Maria Luisa Spaziani, I Meridiani Mondadori, Milano 1997.

Sui processi a Flaubert e Baudelaire si consiglia: Yvan Leclerc, Crimes écrits, La littérature en procès au XIX ͤ siècle, Classiques Garnier, Paris 2021.

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Chiara Pasetti

Chiara Pasetti

Chiara Pasetti (Novara, 1975), scrittrice e drammaturga, ama incondizionatamente Gustave Flaubert, a cui ha dedicato numerosi studi in italiano e in francese.

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