Quando i migranti eravamo noi

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Quando i migranti eravamo noi

| Flora Fusarelli

Si fa un gran parlare di immigrazione e immigrati, con uscite spesso tristi e disturbanti. In pochi si soffermano a riflettere sul fatto che, un tempo, anche noi siamo stati migranti: i nostri nonni, o i nostri bisnonni, costretti a spostarsi per poter sopravvivere a una situazione economica disastrosa, invogliati a partire nella speranza di una vita migliore.
Chiara Ingrao e Lina, la protagonista del suo romanzo – Migrante per sempre – si muovono proprio dal punto di vista di un’italiana che parte per lavorare e garantirsi un futuro. Una ragazza giovane che in qualche modo rinuncia ai suoi sogni, ma per fortuna ne trova altri.
Nella prima parte del libro, Lina è una bambina riflessiva e decisa che ama studiare. Vive però in una Sicilia atavica, in condizione di povertà. Impossibilitata a continuare gli studi, perché obbligata dalla famiglia a lavorare, entra giovanissima in una fabbrica in Germania per permettere ai genitori di avere il denaro necessario a far studiare i figli maschi.
Nella seconda parte, dunque, c’è la vita in fabbrica. Una fabbrica che viene gestita come un lager da una sorvegliante che si avvicina molto alla figura di una dittatrice: Lina e gli altri immigrati sono trattati malissimo, come bestie, senza diritti.
È proprio nei confronti della sorvegliante che Lina mette in atto le sue prime espressioni di ribellione che le faranno guadagnare l’attenzione e la stima delle colleghe. Ed è proprio in Germania che Lina si innamorerà di Piero.
Nella terza parte, in età adulta, sposata e con due figli, Lina rientrerà in Italia e continuerà a fare i conti con le difficoltà della vita, con la mancanza della sua terra, con il peso dei ricordi e con l’alternarsi di persone nuove che portano dietro il dolore di doverne lasciare altre.
Conoscerà qui Rosa, un’immigrata sudamericana che diventerà una sua cara amica e che, attraverso le sue parole, farà accettare meglio a Lina, esausta dai continui sradicamenti, la sua condizione di migrante.

«Voglio accettarmi per quella che sono, voglio esserne fiera. Non sono gli altri a trattarmi da straniera: sono io, che ho attraversato troppi luoghi e troppe tribù, per poter scegliere di appartenere a una sola. Non ho bisogno di loro, non più: sono straniera e sono libera, sono una figlia del mondo. Sono una migrante, Lina, e lo sei anche tu, che ti piaccia o no. Chi è stata migrante resta migrante per sempre».

Il romanzo offre innumerevoli chiavi di lettura. In questo viaggio che include cinquant’ anni di storia, spicca decisamente la contrapposizione tra la forza di Lina, donna migrante risoluta, ribelle, testarda, e la sua debolezza di donna, di essere umano fragile che piange, che ha paura, che si pone domande senza trovare risposte. Una contrapposizione che, a guardare bene, sembra riconducibile semplicemente all’essere donna, al femminismo inteso nel senso più puro, quello senza correnti, senza plurale, quello che nasce e cresce nell’animo di una donna in quanto tale.
Un affresco così profondo, completo e pieno di sfumature non poteva che essere dipinto da Chiara Ingrao, una figura poliedrica, sensibile e piena di esperienze culturali e sociali. Abbiamo voluto farle qualche domanda per voi lettori.

Chi è Chiara Ingrao?
E chi lo sa? Credo che ognuno di noi questa domanda se la ponga più volte, nel corso della sua vita, e magari ogni volta si dà risposte diverse, ciascuna delle quali coglie solo un brandello di verità, perché una verità tutta intera non esiste. Nel mio caso, avendo avuto una vita molto lunga in cui ho fatto tantissime cose e mestieri diversi, e ho coltivato una grande ricchezza di affetti e di relazioni umane, come faccio a dire qual è la Chiara più vera? Quella sempre in prima fila nelle lotte e nei movimenti, o quella del silenzio e del bisogno di guardarsi dentro? La donna libera che grida in piazza “Io sono mia”, o la donna che è fiera di definirsi anche mamma, nonna, compagna di vita di un uomo che ama profondamente? La tessitrice di incontri fra i popoli nelle zone di guerra, o la tessitrice di comunicazione fra le culture nelle cabine dei congressi internazionali? La scrittrice perennemente insicura e incapace di autopromuoversi, o quella sprizzante orgoglio e felicità, circondata da bambini e bambine che hanno letto i suoi libri?  Chiaramente, non sono identità in conflitto, ma complementari. Io sono e sono stata tutte queste cose e molte altre, fra cui una oggi imprescindibile: sono una vecchietta. Usiamo pure il vezzeggiativo, scherziamoci su, ma la sostanza è che io voglio accettarlo e nominarlo ad alta voce, quel tabù che in troppe considerano quasi una vergogna e un insulto. E alla fine dei conti, nonostante i tanti turbamenti, sono profondamente grata al primo lockdown che, privandomi a lungo del rito del parrucchiere, mi ha fatto scoprire la forza liberatoria di esibire con allegria i miei capelli bianchi.

Cosa significa per lei la scrittura?
Per molto tempo è stata una specie di lusso che non potevo permettermi, quasi un vizio segreto. Un bisogno profondo, emerso già nell’adolescenza ma poi travolto dalle rivolte del ’68 e dalla voglia di cambiare il mondo. Da lì il mio lavoro da sindacalista, e poi l’impegno nel femminismo e nel pacifismo. Esperienze ricchissime, che mi hanno dato davvero molto; ma che non bastavano a una qualche parte più profonda di me. Già mentre lavoravo nel sindacato scrivevo di notte storie per le mie figlie, e più tardi è stato proprio da ciò che vivevo nel pacifismo che è nato il bisogno di trovare parole “altre” per dirmi, oltre a quelle della politica. È frutto di questo bisogno insopprimibile, il libro autobiografico Salaam Shalom, sulle mie esperienze con le donne israeliane e palestinesi e non solo, e soprattutto il mio primo romanzo, Il resto è silenzio, maturato con fatica proprio dalla “indicibilità” della guerra nei Balcani.  E infine, la morte di mia madre, l’immersione nelle sue carte e la decisione di farne un libro, Soltanto una vita, integrando quei suoi scritti con il racconto delle sue esperienze, scritto da me in prima persona e dunque inevitabilmente intrecciato anche al mio vissuto più intimo.
Insomma, arrivare a dirmi e farmi scrittrice è stato un percorso molto complesso, e che ha sempre avuto due facce: il bisogno di scavare nella mia interiorità più segreta e profonda, e quello altrettanto forte di rispecchiarmi negli sguardi e nel vissuto di altre donne, facendo anche della scrittura uno strumento di relazione e di scambio. Ed è così, peraltro, che è nato Migrante per sempre.

In che senso? Da cosa nasce Migrante per sempre?
Da un incontro con una persona, casuale ma non troppo. Eravamo ad una presentazione del mio romanzo precedente, Dita di dama, che narra una storia di giovanissime operaie negli anni ’70, e lei è intervenuta dicendo: «Anch’io l’esperienza della fabbrica l’ho vissuta da ragazzina, ma in Germania». Mi ha colpito tantissimo, mi è proprio scattato qualcosa dentro; così a incontro concluso l’ho avvicinata e le ho detto che mi sarebbe piaciuto saperne di più della sua storia.  Per un anno circa, ci siamo incontrate ogni settimana, in lunghi pomeriggi in cui lei mi raccontava di sé con una generosità, un’apertura, una profondità incredibile. Mi ha coinvolto enormemente, forse troppo: il primo tentativo di scrivere era agganciato passo passo alle cose che lei mi aveva narrato, e letterariamente non funzionava proprio. Ho capito che dovevo cambiare registro, essere meno fedele ai fatti e più alla verità interiore, mettendomi in gioco di più come autrice: insomma, dovevo ricominciare da capo, passando dalla cronaca al romanzo. Un compito improbo: mi ci sono voluti anni, un’infinità di tentativi, di riscritture, di periodi lunghissimi in cui di lei non scrivevo una riga ma continuavo a portarmela dentro, come un nodo esistenziale irrisolto.  Nel frattempo, tra l’altro, avevo pubblicato il mio primo libro per l’infanzia, Habiba la Magica, e ho cominciato a girare tantissime scuole: un’esperienza che mi ha travolta e tolto tempo per scrivere, ma mi ha anche dato una nuova forza. Di quella prima cronaca della vita di Lina ho buttato via tutto, e ricominciato da capo cambiando i nomi, omettendo, inventando episodi e personaggi; lei me ne ha dato il permesso, ha accettato di trasformarsi da persona in personaggio, di nuovo con una generosità enorme. Quanto le è costato? Mi chiedo oggi. Non lo saprò mai, spero solo di essere riuscita a donarle anche un poco di gioia, nel sapere delle tante lettrici (e lettori!) che si sono riconosciute in lei e hanno tratto forza dal suo coraggio. 

Chiara Ingrao

Chiara Ingrao

Quale messaggio di fondo vorrebbe trasmettere con questo meraviglioso romanzo?
Grazie per averlo definito “meraviglioso”, ma temo che la mia risposta sia deludente: nessun messaggio. Certo so che il modo in cui ho narrato questa storia è inevitabilmente influenzato dalle mie idee, dalla mia visione del mondo; ma il libro non può essere un modo per imporle o anche solo “insegnarle” a chi legge. Appartiene solo a loro, lettori e lettrici, la scelta di cosa portare con sé dopo aver letto l’ultima riga, e nessuna scelta sarà uguale ad un’altra; o almeno così spero, perché vorrebbe dire che sono riuscita a raggiungere tante persone diverse e a donare loro qualcosa, piccola o grande che sia.

Quanta importanza ha la lettura per chi decide di essere uno scrittore?
Fondamentale. È uno scambio costante, la possibilità di tuffarsi in altri mondi, di apprendere dalle diverse tecniche di scrittura usate da altri autori e autrici, di rispecchiarsi o differenziarsi o perfino arrabbiarsi, con un personaggio o con chi ne scrive: tutte forme di nutrimento dell’anima secondo me assolutamente necessarie, non solo per una scrittrice o scrittore, ma per il nostro essere persone. Io non so quanto a lungo continuerò a scrivere, perché voglio farlo solo fino a che avrò qualcosa da dire e qualche storia da raccontare; ma so con certezza che di leggere non smetterò mai, che ne avrò sempre bisogno come di acqua o di cibo. E spero con tutto il cuore che nel momento in cui forse mi sarà troppo gravoso, troverò qualcuno che faccia per me ciò che io ho fatto per mio papà nei suoi ultimi anni, o che a volte faccio per mio marito, non per necessità ma per puro piacere: leggergli un libro ad alta voce. Come si faceva nell’infanzia, ma non per regredire bensì per riscoprire anche da adulti la meraviglia di condividere un’emozione, fra persone che si amano e che amano i libri.

Si ricorda il primo libro che ha letto?
Prima ancora dei libri, ricordo le storie che raccontava mia madre a noi quattro bambine (mio fratello è venuto dopo), per placare i nostri schiamazzi durante la cena. Non fiabe, ma una versione affabulata e appassionante delle storie che insegnava a scuola: è così, a piccole puntate serali, che ho conosciuto e amato per la prima volta i Promessi sposi, l’Orlando furioso, perfino la Divina Commedia.  Poi, anzi in contemporanea, è venuta anche la lettura in autonomia, anche se non ricordo quale sia stata la prima: i grandi romanzi di Gianni Rodari, il ciclo di Piccole donne, i libri di Erich Kästner e di Verne, e moltissimi altri. Nella mia infanzia la televisione è arrivata molto tardi, il cinema era un evento eccezionale e raro: passavo i pomeriggi a giocare con le sorelle e le bambine del palazzo, ma anche acciambellata sulla poltrona a dondolo nello studio di mio papà, immersa in un libro. Se ci penso, sento ancora dentro di me la sensazione corporea di quella posizione, del silenzio e del lieve dondolio, del tocco delle mie mani sul libro. E quelle storie le ricordo tutte nei dettagli, perché le amavo così tanto che ognuna la rileggevo più e più e volte.

Cosa direbbe ai ragazzi di oggi che scrivono?
Direi di coltivare questa passione dentro di sé e darle spazio nella propria vita come una risorsa preziosa innanzitutto per sé, per la propria anima; ma di non farsi irretire dalla fantasia malata che possa essere una strada per ottenere soldi, successo, notorietà. Questi sono risultati che solo pochissimi scrittori o scrittrici raggiungono, e non sempre per aver scritto i libri migliori: a volte per motivi più commerciali e prosaici, o per pura fortuna. Perfino riuscire a pubblicare, è un traguardo che non tutti e tutte riusciranno a varcare, ma non è questo che conta. La cosa più importante è il valore che la scrittura ha nell’arricchire infinitamente la nostra vita interiore, e questo è un risultato che nessuno può toglierci, che nessuno può impedirci di ottenere. Poi insisterei sull’importanza della lettura, di cui abbiamo parlato prima; ma anche dell’ascolto della realtà e delle persone, e insieme del coraggio di guardare nel buio del proprio io, anche alle cose che magari mettono paura o imbarazzano. Non credo si possano scrivere buoni libri senza questo mix di auto-analisi, da una parte, e dall’altra di curiosità ed empatia verso l’infinita varietà delle esperienze umane. Tentare di imitare i modelli di moda, che sia il fantasy o le storie di horror o i polizieschi o qualsiasi altra cosa, senza metterci dentro un po’ di sé e del mondo di cui abbiamo esperienza diretta, può essere un buon esercizio “tecnico”, da non disprezzare; ma non potrà mai darci la potenza comunicativa che nasce da scrivere di ciò che è più profondamente nostro, e/o delle persone a noi vicine.

Migrante per sempre - Ingrao

Migrante per sempre 
di Chiara Ingrao
Baldini+Castoldi – 2019

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Flora Fusanelli

Flora Fusarelli

Appassionata di letteratura e autrice di numerose recensioni di libri, si occupa di editoria e ha pubblicato il suo primo romanzo "Le deboli".

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