La schiavitù contemporanea

Idee

La schiavitù contemporanea

| Giuseppe Di Matteo

Tra le vittime e i carnefici si insinuano infinite zone grigie. Lo insegna Primo Levi ne I sommersi e i salvati, che racconta con sconvolgente lucidità la filosofia macabra dell’universo concentrazionario nazista. Vale, naturalmente, anche per situazioni lontanissime dal Male assoluto. Lo dimostra il bel libro-inchiesta di Valentina Furlanetto Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, edito da Laterza (199 pag. 16 euro), che descrive con la precisione chirurgica del bravo cronista le fondamenta d’argilla su cui si regge il nostro benessere quotidiano.
Già, perché dietro la porta che separa la zona di confort di noi privilegiati dal mondo esterno ogni giorno si affanna un esercito di schiavi di cui spesso non ci accorgiamo (o facciamo finta di non accorgerci). E invece, per ogni libro che acquistiamo su Amazon esistono migliaia di lavoratori sottoposti a ritmi a dir poco massacranti. Per ogni piatto che ordiniamo a domicilio su una piattaforma di food delivery c’è una pattuglia di rider sottopagati che reclama più diritti. Dietro tanti prodotti a basso costo che compriamo al supermercato c’è la lotta per la sopravvivenza di una manovalanza, straniera ma non solo, che vive in condizioni inaccettabili. E poi c’è la giungla dei contratti. Attraverso il meccanismo dei subappalti vengono immessi sul mercato lavoratori di serie B, che spesso svolgono le stesse mansioni dei loro colleghi assunti direttamente dalle aziende. Un meccanismo, questa la tesi dell’autrice, che fa comodo a tutti: alle imprese, che risparmiano sui costi, e ai consumatori, che spendono meno ma pagano quel risparmio a caro prezzo. Prezzi eccessivamente contenuti, infatti, possono celare storie di sfruttamento, caporalato, lavoro nero.
Furlanetto incrocia dati, testimonianze, storie, destini. Scava con pazienza nelle stanze più intime delle nostre abitudini e ci mette di fronte allo specchio. La verità è amara, ma è ora di raccontarcela con franchezza: del grande ingranaggio facciamo tutti parte, sebbene con diversi gradi di responsabilità. «Esiste una fascia di popolazione, per lo più straniera, che ha pochi diritti e pochi soldi, che accetta lavori malpagati e faticosi perché non ha altra scelta, che pedala e consuma calorie ma non sa se riuscirà a mangiarne a sufficienza. Esiste poi una fascia di popolazione italiana e benestante che vuol fare sport e perdere calorie, ma non esce di casa per prendere la cena e la ordina a domicilio. Se ci pensate è assurdo. Non sto puntando il dito contro di voi, la donna della cyclette sono io».
È l’autrice stessa a dirlo, senza risparmiarsi. Ma il meccanismo è anche più complesso. Perché ci vuole poco a passare dall’altra parte della barricata. E così lo sfruttato - italiano o straniero che sia - può trasformarsi in sfruttatore, contribuendo a mantenere viva l’immensa giostra su cui salgono spaccapietre cinesi, braccianti macedoni, badanti ucraine, addette alle pulizie rumene, rider africani, magazzinieri ecuadoriani, bengalesi nei cantieri navali, allevatori sikh. E, viene da aggiungere, anche tanti precari italiani eternamente intrappolati nell’odissea dei contratti a termine (quando ci sono). 

Valentina Furlanetto

Furlanetto, all’inizio del suo libro inchiesta lei scrive: «Sorge il sospetto che faccia bene a tutti che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro dei para-schiavi». È ancora un sospetto o qualcosa di più?
«No, non è un sospetto. Purtroppo è qualcosa di più, di molto radicato. E fa a pugni con la nostra presunzione di essere al riparo dalla schiavitù. Basti pensare che anche dopo la pubblicazione del mio libro, lo scorso maggio, si sono susseguite numerose inchieste che hanno portato alla luce diverse situazioni di caporalato in tutta Italia».

Tra le tante storie che racconta qual è quella che l’ha sorpresa di più?
«Ce ne sono tante. E altrettante sono le persone con cui sono rimasta in contatto. Una di queste è Elisabetta, una badante dell’est Europa che si è presa amorevolmente cura di una novantenne di nome Elvira. Quando Elisabetta ha avuto il covid, si è rifiutata di andare in ospedale per continuare ad assisterla. Per lei Elvira era molto più di una datrice di lavoro. Ma penso anche a Ouattara, di cui parlo alla fine del libro. Ouattara lavorava consegnando pranzi a domicilio. La sua storia è straordinaria e non sempre edificante: si è infatti trovato in situazioni estreme, ma è riuscito a sopravvivere anche grazie alla sua intelligenza. È stato un grande incontro dal punto di vista umano».

Dal meccanismo della schiavitù contemporanea nessuno può chiamarsi fuori. Eppure, specialmente da parte della politica, non si fa mai abbastanza per debellarla. Perché, a suo avviso?
«Credo perché convenga a tutti non debellarla. A destra come a sinistra. Nel centro-destra non si fa nulla perché questa schiavitù contemporanea, che comporta un abbassamento delle paghe e dei diritti, provoca risentimento nei confronti degli stranieri, e, di conseguenza, porta anche un bel po’ di voti a certi partiti. Questo è accaduto, come spiego nel libro, a Monfalcone, ex città rossa d’Italia ora passata alla Lega. I cantierini di Monfalcone che lavorano per Fincantieri un tempo erano italiani. Poi, un po’ alla volta, quel lavoro è stato appaltato ad alcune ditte di sub-appalto, che applicano contratti più bassi. Risultato: gli italiani sono rimasti senza lavoro e ora c’è una massiccia presenza di stranieri, gli unici che si sono adattati alla situazione. Per quanto riguarda il centro-sinistra qualcosa si cerca di fare. Ma c’è una parte di quell’area che flirta storicamente con le cooperative e non se la sente di debellare questa situazione.  Una volta le cooperative si distinguevano per una gestione virtuosa del lavoro. Oggi invece si sono trasformate in altro, anche se non tutte, ci tengo a sottolinearlo. A volte sono scatole vuote o false cooperative atte ad abbassare il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori».

Tra le categorie di non garantiti spesso ci sono anche i giornalisti. Perché nessuno ne parla?
«Ha ragione, anche questo è un problema. Molti colleghi, giovani e meno giovani, sono in una situazione di para-schiavismo. Nel mondo del giornalismo spesso c’è il lavoro a cottimo. Chi non è assunto o non lavora all’interno di una redazione vive una situazione incresciosa. Le confesso che inizialmente avevo pensato di dedicare un capitolo del libro a questo tema. Ma poi mi sono concentrata sugli stranieri, i quali, non avendo documenti, spesso sono i soggetti più deboli. Il problema però esiste e potrebbe essere al centro di un prossimo libro. Vedremo».

Il grande merito della sua inchiesta sta nell’aver mostrato una fotografia amara di ciò che c’è al di là del nostro steccato. Cosa possiamo fare, concretamente, per rendere migliore il mondo del lavoro?
«Si può e deve fare molto. Il consumatore può certamente informarsi, provare a chiedersi cosa c’è dietro un pacco che acquistiamo online o un prodotto che compriamo al supermercato e che ha un prezzo particolarmente basso. Ma per scardinare realmente determinati meccanismi occorrono nuove regole, e questo è compito della politica».  

Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa

 di Valentina Furlanetto
Laterza, 2021

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