Senza la base scordatevi le altezze

Idee

Senza la base scordatevi le altezze

| Giuseppe Augurusa

Ci ho messo anni a capire che Bologna la rossa non è una locuzione ideologica, bensì il riverbero dei mattoni medievali della città antica che colorano i seicentosessantasei archi degli antichi portici nelle strade del centro storico. Così, mentre rido tra me e me di come certe granitiche certezze vengano infrante in un nanosecondo da un qualsiasi motore di ricerca, il vento primaverile accarezza la nostra discussione al tavolino di un piccolo locale del Quadrilatero, mentre trangugiamo una birra fresca a margine di un convegno attardato sul novecento. 

Avevo avuto il suo numero di telefono da un collega che mi aveva suggerito di porre a lei le questioni di frontiera di mi occupavo, assicurandomi che sarebbe stata molto disponibile. Lo fu davvero, senza alcuna reticenza, con la cordialità di qualcuno che sembra conoscerti da sempre. La nostra birra durò così un paio d’ore, non solo per la quantità e la qualità delle spiegazioni che mi fornì, ma per le frequenti interruzioni di studenti che, passando nella stretta via del quartiere dell’antico mercato bolognese, la riconoscevano pretendendo chi un autografo da conservare, chi un selfie da postare. Per quei giovanissimi universitari, pensavo, a dispetto dell’età, era già un punto di riferimento. Un politico (lei lo declinerebbe certamente al femminile) che non si limitava a parlare dei giovani osservandoli invecchiare, ma a parlare con i giovani, non proprio un dettaglio. 

Aveva appena concluso il suo mandato al Parlamento Europeo dove non si sarebbe ricandidata per un secondo mandato, nel corso del quale si era occupata, tra l’altro, della riforma incompiuta dell’ostico regolamento di Dublino, madre di tutte le battaglie per regolare adeguatamente i flussi di migranti in fuga dalle tante ingiustizie del mondo. Un approccio pragmatico il suo per gestire esodi di varia umanità raccontati come invasioni bibliche da media eccitati e da sovranisti rancorosi, mentre nella realtà, non rappresentavano neppure un punto decimale rispetto alla popolazione dell’Unione Europea. Lei, il volto indignato dall’aggressione a freddo a Romano Prodi, l’indignazione trasformata poi in azione con Occupy PD, aveva abbandonato il partito del Lingotto un paio d’anni prima senza mai però, forse, abbandonare l’idea di farvi ritorno prima o poi in quella comunità che ben conosceva, nel frattempo divenuta ostaggio del guastatore di Rignano, intento a rottamare persone, storie, esperienze e culture politiche. Altro che neofita, altro che papessa straniera come denunciano oggi i suoi detrattori: Elena Ethel all’anagrafe, con quel suo nomignolo contratto dal lessico familiare e con quel patronimico storpiato al nonno in fuga dall’antisemitismo nazista dalla zelante burocrazia di Ellis Island, ha solo atteso il momento giusto per tornare a casa. Perché solo chi parte può fare ritorno. Solo chi non indugia a guardare il mondo da un oblò può comprendere limiti e pregi delle nostre piccole patrie. Lei, un ONU ambulante con le sue tre cittadinanze, pareva essere proprio così.

Da allora l’ho incontrata altre volte in altrettante occasioni per malati gravi di passione politica: in manifestazioni zeppe di gente ostinata a cambiare il mondo malgrado il mondo stesso, alla presentazione di libri che avrebbero letto in pochi (compreso il mio), nei convegni sugli ultimi della terra ingiustamente accusati dai penultimi, ignari o più spesso indifferenti alle responsabilità dei primi. In quelle circostanze,  mentre articolava discorsi mai banali, tagliava l’orizzonte con lo sguardo appassionato dei visionari, disegnava scenari gesticolando nell’aria, mentre, cioè, si affannava a convincerci dell’unitarietà delle lotte quale antidoto alle discriminazione (siamo la sovrapposizione di diverse identità sociali e delle relative discriminazioni e oppressioni, per dirla con la giurista americana Kimberlé  Williams Crenshaw, che aveva teorizzato il fenomeno fin dalla fine degli anni ottanta, coniando il termine intersezionalità), io mi trovavo a pensare che una sinistra così smarrita e litigiosa avrebbe avuto bisogno come il pane di una guida davvero carismatica. Mi lasciavo trasportare dalla suggestione involontaria della giovane donna capace di sbrogliare la matassa ingarbugliata del mondo progressista sempre troppo occupato a guardare il dito anziché la luna, mentre le estreme destre, prezzolate del capitale finanziario, marciavano spedite al passo dell’oca verso le cancellerie d’Europa, intente ad ingaggiare la lotta ai poveri anziché quella alle povertà.

Già, una giovane donna l’avrebbero poi chiamata anche i detrattori di sinistra, con quel linguaggio un po’ paternalista della società patriarcale che sott’intende l’impossibilità strutturale, quasi plastica, per un corpo troppo gracile a sostenere il confronto con il presunto sesso forte. Una riedizione in chiave progressista del machismo, quasi che la competizione politica si svolga sul ring anziché nelle assemblee elettive. Sarà per quella passione atavica nascosta in qualche recesso della nostra memoria per gli stoici leader dallo sguardo sfuggente che celano più di ciò che rivelano, dal corpo in sovrappeso, dall’eloquio barocco ed impostato che quest’attempata trentenne che ambisce ad essere seducente lontano dalle piste da ballo, dalle feste di paese, dallo shopping compulsivo un po’ mette in crisi le nostre convinzioni. Poco importa a costoro se, al contrario, la “giovane donna” è in realtà una forza della natura capace di trascinare gente, mobilitare folle, risvegliare antiche passioni sopite, evocare il futuro di una volta come avrebbero detto i nostri padri sognando condizioni migliori per sé e per i propri figli. Quel futuro che invece, oggi, per un’intera generazione sembra scomparso nella società italiana contemporanea che il Censis definisce malinconica. Ma, al contrario, in questi tempi difficili, il corpo sembra tornare protagonista più con le sue apparenti fragilità che con la sua ostentata forza, come ci indica la leadership globale di Greta Thunberg, come ci avrebbe ricordato quel sant’uomo di Marco Pannella con il suo storico monito, quasi un presagio quel suo percorso ideale dal corpo delle persone al cuore della politica.

Così, oggi, a distanza di qualche anno, quella leadership auspicata si appresta a diventare reale, prospettando un nuovo partito dentro una nuova sinistra. Una leader che, dopo la lunga notte della pandemia, suggerisce di non tornare alla normalità perché “è la normalità di prima ad essere il problema”: con le sue diseguaglianze, la sua precarietà, il suo sviluppo insostenibile. Mentre prospetta un partito capace di ricostituire quella comunità di destino in cui prevalgano le intelligenze collettive anziché le aggregazioni correntizie troppo spesso scambiate per pluralismo, nel quale la partecipazione dei militanti conti di più: “senza la base scordatevi le altezze” va ripetendo infaticabile mentre attraversa la penisola in lungo e largo immaginando un paese migliore.

A dispetto di chi va blaterando quella tesi senza fondamento secondo cui non esistono più destra e sinistra, ripensando a quella primavera del 2017, immagino la sinistra un po’ come quella Bologna cantata da Guccini: “…una vecchia signora dai fianchi un po' molli …per me provinciale, Parigi minore…”, di una straordinaria vivacità culturale, ma incapace di darsi una direzione certa e comprensibile ai più tenendo insieme la radicalità dei valori con il pragmatismo delle soluzioni. 

Il prossimo 26 febbraio può essere una grande occasione: le leadership naturali come quelle di Elly non nascono così frequentemente, varrebbe la pena non sprecarla.

      

Condividi su

Contattaci

  • Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.


©2021 Massi Dicle. All rights reserved.
Privacy & Cookie policy.
Powered by microcreations.it