Centro tecnico Alfa Romeo (Palazzo Gardella) - Foto di Stefano Suriano

Idee

Il silenzio degli innocenti

| Giuseppe Augurusa

All’onore di possedere uno sconfinato patrimonio storico-culturale, nel nostro Paese più che altrove, si aggiunge il gravoso onere della sua gestione e conservazione. Così accade che tra gli oltre ottomila Comuni della penisola si nascondano (spesso letteralmente, tra sterpi e rovi), tracce di un passato, tanto prossimo quanto remoto, che l’incuria, la negligenza, la responsabilità pubblica senza portafoglio, quando non più spesso gonfi portafogli privi di responsabilità, finiscono per derubricarle ad aree dismesse. Girovagando negli ultimi vent’anni, tra pubblica amministrazione, impresa privata, terzo settore mi è spesso capitato di incrociare vicende di tal fatta. Situazioni abitualmente imbrigliate nel paradosso della burocrazia (utile ricordarne l’etimologia: krátos forza, bureau ufficio pubblico); che talvolta, assecondata dall’inazione della politica, finisce per rendere la “forza del pubblico” il peggior nemico della conservazione del patrimonio collettivo ed il migliore alleato della speculazione privata. 

Da ultimo, una situazione analoga l’ho incrociata proprio nella mia città, Arese. Casus belli, l’ex centro tecnico Alfa Romeo conosciuto come Palazzo Gardella che prende il nome dall’architetto razionalista Ignazio Gardella (1905-1999), ideatore tra gli altri, oltre che appunto degli uffici della Alfa Romeo ad Arese (1972), di alcuni capi d'opera che meritano tra gli altri di essere ricordati come: la casa per impiegati Borsalino ad Alessandria (1952), il Padiglione d’arte contemporanea a Milano (1953), la Casa d'abitazione alle Zattere a Venezia (1958), la Mensa Olivetti a Ivrea (1959), il Monumento ai caduti della lotta partigiana e di piazza della Loggia a Brescia (1988), il nuovo Teatro Carlo Felice a Genova (1990). Insomma, un indiscutibile protagonista del razionalismo italiano, corrente architettonica sviluppatasi in Italia negli anni venti e trenta  seguendo i principi del funzionalismo (l'aspetto di ogni edificio deve chiaramente rispecchiare lo scopo per cui è creato) e proseguita sino agli anni settanta, è stato protagonista anche dello sviluppo della mia città. Un uomo evidentemente attento al rapporto simbiotico tra l’architettura ed il territorio, non collocato in una qualche torre d’avorio da archistar ante litteram, che incalzato in proposito, in una bella intervista a metà degli anni settanta, sosteneva che 

“...la crescita degli insediamenti umani deve essere regolata non con lo strumento equivoco dei piani regolatori, così come oggi sono intesi, ma con programmi e progetti, perché non c’è ragione di distinguere tra architetti e urbanisti. Mentre i progetti rientrano nel campo specifico dell’architettura alle diverse scale, i programmi richiedono un coacervo di competenze che superano non solo quelle dell’architetto, ma anche quelle dell’urbanista nella sua figura attuale, che interessano tutto il quadro delle attività umane e che si risolvono poi in un atto essenzialmente politico”.

Il suo lascito alla città, collocato in un’area di due milioni di metri quadri dell’ex stabilimento Alfa Romeo e sollevato sui grandi pilotis di un enorme porticato di lecorbusiana memoria, è quell’enorme palazzo di quattro piani composto da due quadrati terminali e congiunto da un lungo corpo longitudinale (difficilmente occultabile sotto rovi e sterpi, affida l’incombenza del degrado ai più devastanti agenti atmosferici). Nella testa del progettista ha rappresentato la grande porta della fabbrica con lo sguardo rivolto alla città vicina ma lontana alla vista; un primo imponente segno di urbanizzazione in quella campagna surrogata tra Arese e Milano di quegli anni.  

La ventennale deindustrializzazione che ha spazzato via lo storico opificio del biscione, il lungo iter di frazionamento delle aree tra diverse proprietà, l’euforia dell’Expo 2015 con il miraggio dei grandi parcheggi d’interscambio (“parcheggi, solo parcheggi…” avrebbe detto il mitico Teco Celio quale soluzione drastica in Benvenuti al Sud), l’arrivo della grande distribuzione commerciale e, infine, la cessione del Palazzo Gardella ai medesimi proprietari del Mall a conclusione delle attività di FCA, ha riproposto il tema del presidio alla memoria. Non si tratta di nostalgia a buon mercato, bensì della storia, quella di Alfa Romeo, oggi conservata solo dalla presenza del Museo storico della casa automobilistica, anch’esso conquistato con le unghie e coi denti dalla comunità locale a valle di un lungo contenzioso tra Ente pubblico e FIAT. Così, il palazzo Gardella addormentato dalla storia e improvvisamente risvegliato dalla cronaca, diviene ora l’affaire Gardella: prestigiosi architetti internazionali e alfisti appassionati si cimentano a colpi di petizioni e richiedono l’apposizione del vincolo al Ministero dei beni culturali. La stampa locale, sempre troppo incline a rappresentare il senso comune prima che il buon senso, narra (e più spesso liquida) di querelle di basso profilo. La politica, al solito, imprigionata in un eterno attendismo tattico, perlopiù sonnecchia. L’Ente locale, che pure potrebbe agire con un’analoga richiesta di vincolo per la conservazione al MIBAC (anche in ossequio al principio di leale collaborazione tra Enti), al contrario lo reputa superfluo seminando rassicurazioni sulle volontà dei nuovi proprietari, ovvero sui propositi degli altri per i quali, ovviamente, non può dare alcuna garanzia. I nuovi padroni infine, mentre impacchettano gli ingressi con provvisorie pareti di cartongesso a tempo indeterminato, ovviamente rassicurano sulle magnifiche sorti e progressive della fase post pandemica. 

Eppure basterebbe, persino per i più riottosi, l’attenta lettura della Costituzione a collocare a pieno titolo anche storia e memoria tra i beni comuni non negoziabili. Anche in questo campo infatti, la migliore Costituzione del mondo fissa dei paletti precisi, affidando ai detentori della forza legittima, lo Stato nelle sue articolazioni territoriali, il compito di intervenire e non quello di astenersi dove vi siano evidenti valutazioni d’interesse culturale e storico per la collettività, anche se di proprietà privata. Così, tra il frastuono dei potenziali colpevoli di omissione di soccorso, spicca assordante il silenzio degli innocenti; innocenti solo fino a prova contraria.  Quelli cioè, che pur potendo non decidono perché in loro prevale la retorica “dell’andrà tutto bene”. La predilezione per l’economia di relazione su quella delle idee, dove l’affidabilità dell’interlocutore conta più dei fatti e degli atti, per paradosso, proprio nel momento in cui la pandemia ha fatto riscoprire la centralità della funzione pubblica nel rapporto con i privati. 

Sia chiaro, non c’è quasi mai malafede in tutto questo (non certamente nel caso di specie), comunque meno di quanto non vi sia superficialità. C’è piuttosto l’assuefarsi all’idea che il governare sia divenuto tuttalpiù amministrare, che la politica abbia smarrito ogni più piccola componente utopica in grado di valutare il futuro non solo come l’ineluttabile conseguenza del presente; una resa senza condizioni, insomma. Così, la ricerca ossessiva di equilibrismi funambolici tra pubblico e privato a garantire un do ut des nelle tante partite aperte della trasformazione urbanistica del territorio, non fa scorgere la soluzione semplice, a portata di mano: l’apposizione di un vincolo storico – relazionale (per definizione una tutela che riguarda cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”). In altri termini, un vincolo leggero che consenta a un tempo di salvaguardare il bene e consentire ampio margine di manovra alla proprietà per la sua futura destinazione, oltreché permettere l’accesso ad importanti fondi pubblici. 

Da mesi, insieme a centinaia di alfisti la cui passione non è mai doma sotto il logo di Alfa Club Milano, a cultori e studiosi dell’architettura, agli eredi della tradizione di Ignazio Gardella rivolgiamo questa semplice richiesta, convinti come siamo che anche per questa via passi lo snodo che coniuga memoria e futuro, storia e sviluppo. Perché, per dirla con Ignazio Gardella, “la città moderna non può essere progettata in modo che sia astratta da quelle che sono le sue memorie”.

(Foto copertina di Stefano Suriano)

Ignazio Gardella (1905-1999)
Ignazio Gardella 

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