La prima cosa bella

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La prima cosa bella

| Elisabetta Malantrucco

L’ARCI è una associazione importante e presente in tutto il territorio italiano; siamo abituati soprattutto a conoscerla per le sue attività culturali e per i suoi circoli sempre pieni di iniziative artistiche. Ma in realtà l’ARCI è anche molto vivace in tutti i progetti di volontariato, solidarietà e assistenza del nostro Paese. E in tutta Italia è in prima linea nell’accoglienza ai migranti, un tema sempre molto caldo – anzi, potremmo dire surriscaldato – nella nostra società. Soprattutto per l’utilizzo strumentale che la politica fa di questo tema, per nascondere la realtà dei suoi numerosi fallimenti. È risaputo infatti che il Potere, quando ha bisogno di spostare da sé l’attenzione, ha interesse a creare nemici inesistenti. 
Che il problema delle migrazioni esista e coinvolga tutti i Paesi del Mediterraneo - e da molti punti di vista - è indubitabile. Ma è abbastanza evidente trattarsi soprattutto di un problema che tocca aspetti organizzativi, di gestione delle responsabilità, di modelli di integrazione: non ha nulla a che vedere con la terribile minaccia economica, sociale e culturale, continuamente paventata e alimentata dalle destre. L’Europa – con il nostro Paese in prima fila – ha attraversato una lunga crisi economica, “curata” con una micidiale austerità che ha colpito il tenore di vita del ceto medio e ha creato nuove povertà. È un discorso complesso e lungo che non possiamo ora affrontare, ma certamente sappiamo che storicamente ogni volta che questo accade è necessario trovare una risposta facile, un nemico da odiare. 
Chi meglio del migrante? Il migrante è diverso, è scuro, è povero, è misero, “viene mantenuto dallo Stato mentre l’italiano muore di fame”, eccetera. In questi anni abbiamo scoperto con apprensione l’anima nera (nel senso di oscura e piena di paura) degli italiani. Abbiamo visto con sgomento padri di famiglia e nonne felici e orgogliose, non mostrare alcuna pietà di fronte a bambini morti, di fronte al Mediterraneo divenuto cimitero d’acqua, di fronte agli orrori della fame, della guerra, degli stupri, dei lager, delle violenze. Abbiamo sentito invadere i tg di storie di porti chiusi, di vere e proprie battaglie, legali e politiche, contro i soccorsi, di legami e accordi imbarazzanti con la Libia dove si consuma ogni forma di violenza. 
La verità è che siamo di fronte certamente ad una situazione drammatica e complessa, che però potremmo vedere con maggiore lucidità se ci fermassimo a ragionare in modo diverso: se riuscissimo a pensare a quelle donne, a quegli uomini, a quei bambini, non come “immigrati” e quindi come una categoria diversa dalla nostra. Ma come persone. Ognuna con la propria storia. 
È quello che fa Luca Basso, ex Presidente di ARCI Bari – si è dimesso pochi giorni fa - e attualmente Consigliere Nazionale dell’associazione e Componente del Consiglio regionale di ARCI Puglia e del Direttivo di ARCI Bari e BAT. 
Nei sette anni di Presidenza, Luca ha avuto anche la responsabilità dei centri di accoglienza (prima SPRAR e ora SAI) di Bari e l’incontro con questa realtà gli ha modificato le prospettive della vita. Vita di giornalista, di addetto stampa istituzionale, e anche di artista, in qualità di cantautore. Luca Basso infatti scrive canzoni da quando era ragazzo. È stato fondatore del gruppo pugliese Funambolici Vargas e successivamente dei Fabularasa; ma è stato anche paroliere per i Folkabbestia e per molti altri artisti. Insomma, una vita intensa e piena di attività culturali la sua. Usando le parole di una sua canzone, dedicata al 25 Aprile (si chiama Fiorile), potremmo così sintetizzare l’esperienza umana e professionale di Luca: “Libera vita in libero sentiero e libera strada in libero pensiero”. Proprio per questo, la sua particolare esperienza ci permette di affrontare l’argomento “migranti” da una prospettiva diversa...

I giornali scrivono, i telegiornali mostrano immagini (spesso di repertorio), i politici usano l’argomento per propaganda. Ma in effetti non è chiara a tutti l’organizzazione dell’accoglienza ai migranti in Italia. Puoi spiegarla brevemente?
In Italia l’accoglienza dei cittadini migranti è sostanzialmente di due tipi: la prima accoglienza - immediatamente successiva all’arrivo nel nostro Paese - quella dei cosiddetti CPA, strutture dove si dovrebbe rimanere il tempo necessario all’espletamento delle operazioni di identificazione e all’avvio della procedura di esame della richiesta di asilo; la seconda accoglienza, quella che accompagna i cittadini migranti all’autonomia e all’integrazione. Negli ultimi anni questa seconda accoglienza ha subìto diversi cambiamenti: dal 2002 al 2018 il sistema si chiamava SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e vi potevano accedere sia i Richiedenti Asilo che i Titolari di Protezione; nel 2018, con i Decreti Sicurezza, si è passati al SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), riservato quindi solo a chi già aveva la protezione, escludendo i richiedenti; dal 2020 è invece attivo il SAI (Sistema di accoglienza e integrazione) che nei fatti, seppur con qualche differenza, è tornato un po’ all’organizzazione più aperta degli SPRAR. Insomma, per capirci meglio, in qualche modo il SIPROIMI finiva per abbandonare al proprio destino i migranti che non ottenevano protezione, lasciandoli irregolari sul territorio. 

In che maniera si è impegnata in tutto questo ARCI Bari?
ARCI Bari da sempre è impegnata solo nella seconda accoglienza e, poiché siamo contrari ai centri collettivi, i nostri beneficiari vengono accolti in normali appartamenti, dentro normali condomini e in zone più o meno centrali delle città. E proviamo ad insegnare loro a vivere in Italia, accompagnandoli verso l’autonomia e l’integrazione. Curiamo poi la loro situazione legale, ci occupiamo dell’insegnamento della lingua italiana e della loro formazione. Li aiutiamo a trovare lavoro. Proviamo ad esser loro di supporto nella trasformazione da ospiti a cittadini.

Come nasce l’attivismo dell’ARCI in questo settore?
L'impegno della ARCI nell'accoglienza è molto antico. Sono tantissimi i comitati - soprattutto nel Centro e nel Sud Italia - che si occupano di accoglienza e integrazione dei cittadini migranti. Negli ultimi mesi è nato anche un importante Consorzio Nazionale: Officine Solidali, che mette in rete e a sistema tutte le esperienze ARCI italiane in questo settore. E in particolare ARCI Bari se ne occupa da oltre 15 anni. È un settore davvero importante per noi, ma non certo l’unico. Considera che l'ARCI è la più antica associazione italiana: ha un milione di tesserati ed è l’unico soggetto della Sinistra a non aver mai cambiato nome. La rete dei Circoli ARCI resta essenzialmente una grande varietà di esperienze che vanno dal dopolavoro agrario ai circoli studenteschi, dalle scuole di musica e di danza alle masserie, dalle botteghe di commercio equo e solidale ai circoli giovanili. 

La tua esperienza di vita e professionale è nella comunicazione, nella musica e nella cultura. Anche in ARCI ti sei occupato soprattutto di questo. Alla fine sei diventato Presidente a Bari. Come è andata? 
Io milito nella ARCI da tantissimi anni, oltre 25; ho iniziato occupandomi prima di comunicazione e poi di musica e cultura. Sette anni fa, in un momento particolarmente difficile dell'associazione, mi è stato chiesto - forse anche in virtù della mia antica militanza - di occuparmi, a titolo esclusivamente volontario (ci tengo a precisarlo), della guida del comitato. L'ARCI per me vuol dire tanto: è la sinistra che fa le cose, che pensa molto ma parla con i fatti, rimboccandosi le maniche. La considero un presidio di democrazia e di uguaglianza. 

Quando, in qualità di Presidente, ti sei trovato di fronte all’accoglienza dei migranti, cosa è successo in te? Cosa è cambiato?
Quando ho iniziato sapevo poco di questo mondo, ma quando progressivamente mi sono avvicinato non sono potuto restare indifferente. È impossibile se hai una coscienza. E infatti è stata una situazione che mi ha completamente travolto. La vera questione è riuscire a spiegare all’opinione pubblica che gli immigrati non esistono, o meglio è sbagliato parlare di “immigrati”; esistono piuttosto tantissime persone, tantissime storie, ognuna di loro ha un motivo, un percorso, un bisogno, un desiderio. Racchiudere tutti dentro un unico sostantivo è sbagliato. Ci sono grandissime differenze non solo tra chi arriva da Paesi diversi, ma anche tra chi arriva da città diverse di uno stesso Paese. Quello che mi ha catturato fino al punto di spingermi a dedicare a tutto questo un lungo pezzo della mia vita, è stato il venire a contatto direttamente con storie incredibili di dolore e di violenza, con avventure indicibili, e poi poter sostenere storie di riscatto in cui la realtà superava ogni possibile immaginazione. L'accoglienza di persone provenienti da altri Paesi e in condizioni di difficoltà è sancita dall'articolo 10 dalla Costituzione e per questo bisogna entrare nell’ordine di idee che l'accoglienza è un servizio pubblico essenziale, alla stregua della Scuola e della Sanità. Io cittadino italiano, nato in Italia, ho il diritto di avere accanto persone sane e libere di organizzare la propria vita.

In tutta sincerità, dopo questi sette anni, che idea ti sei fatto di queste strutture? Le consideri utili? Funzionano così come sono?
Come ti dicevo, bisogna considerare l’accoglienza come un servizio essenziale. È molto difficile fare un buon lavoro nel poco tempo che si ha a disposizione: di fatto in soli sei mesi dobbiamo accogliere una persona - che magari in tutta la sua vita non era mai uscita dal quartiere in cui era nata e che improvvisamente si trova in un posto che non sa neppure riconoscere sulla mappa - e renderla in grado di parlare italiano, di sapersi orientare nel nostro Paese e soprattutto di avere casa e lavoro. Se riusciamo a registrare una percentuale piuttosto alta di successi è sicuramente grazie ai nostri professionisti, ma anche e soprattutto grazie alla grande determinazione che hanno queste persone: quando arrivano in Italia ed entrano in un SAI sono consapevoli di avere una sola possibilità di successo e di solito non la sprecano.

Mi fai un esempio? Mi racconti un episodio?
Bene, per esempio due anni fa riuscimmo, con molta fatica, a inserire due dei nostri ragazzi in un corso di formazione per magazzinieri. Al corso parteciparono in 18 e gli altri 16 erano tutti italiani. Alcuni abbandonarono durante il corso, altri, finita la parte teorica, si spaventarono davanti alle prove pratiche; altri ancora iniziarono lo stage, ma lo giudicarono troppo faticoso. Morale della favola: gli unici due superstiti, assunti alla fine dalla ditta di logistica che aveva promosso il corso, sono stati proprio i nostri due beneficiari. Sai perché? Perché nulla li spaventava: sveglia nel cuore della notte, viaggio in treno, chilometri in bicicletta nella penombra del primo mattino. Sono passati due anni e sono ancora lì, anche se ora fanno turni meno gravosi, e sono tutt'ora contenti del loro lavoro. Ma è bene che si sappia che non è una storia rara: sono ormai tanti gli imprenditori che mi contattano perché vogliono assumere soltanto ragazzi africani, per la loro dedizione, per la loro disponibilità, per la loro passione per il lavoro. Quella dei rifugiati che vengono in Italia in vacanza e una emerita fesseria.

Questi due ragazzi si sono fermati e sono contenti. Ma in generale qual è lo scopo di queste persone, fermarsi in Italia o andarsene?
È molto difficile rispondere a questa domanda. La prima cosa che bisogna precisare è che la gran parte di queste persone ha come primo obiettivo quello di fuggire dal posto in cui si trova. Nella maggior parte dei casi non riesce a pianificare la partenza e la destinazione finale; quindi l’approdo in Italia è del tutto casuale. In qualche caso c'è la volontà di ricongiungersi a familiari che si sono già inseriti in altre realtà e in altre nazioni; qualche volta c'è un lavoro di “cuscinetto” organizzato dalle comunità di migranti presenti in Italia da molto tempo, o magari da conoscenti; alcune volte chi arriva viene attratto in circuiti di illegalità. La verità è che ogni caso è diverso. Ma ciò che è importante da ricordare è che, molto spesso, queste persone - pur volendo raggiungere altre nazioni - sono costrette a rimanere in Italia a causa del cosiddetto protocollo di Dublino, secondo il quale, nei fatti, il cittadino di un Paese terzo che arriva in UE può chiedere asilo solo nello Stato membro in cui ha fatto il proprio ingresso. Una norma che scarica il progetto del diritto d’asilo solo sui pochi paesi che si affacciano sul mare, visto che è davvero “difficile” che un barcone di migranti sbarchi in Belgio o in Polonia. È spesso successo, quindi e purtroppo, che migranti che erano riusciti a ricongiungersi con la propria famiglia in un altro paese dell'Unione, siano stati rimpatriati, anche dopo anni, separati dai loro familiari e riportati in Italia. Sono i cosiddetti “dublinati”. Una crudeltà gratuita: uno riesce con grande fatica a raggiungere un paese straniero lontanissimo, a ricongiungersi con la famiglia, a trovare lavoro, anche approfittando del fatto di trovarsi in un paese di cui conosce la lingua - per esempio i Senegalesi o gli Ivoriani in Francia - ma solo per il fatto di essersi fermato in Italia durante il viaggio, magari dopo due anni deve tornarci. Una follia, una cattiveria inutile. Un vistoso atto di “razzismo comunitario”.

In effetti è terribile, come spesso sono terribili certe storie di migranti donne o minori che leggiamo. So che ne conosci molte. Ti va di parlarmene?
Mi chiedi davvero un grosso sacrificio personale, ma ti ringrazio perché con questa domanda mi consenti di parlare di un tema estremamente importante. Le donne e le ragazze sono quelle che pagano il prezzo più alto in termini di sofferenze nei viaggi di immigrazione. Quando vediamo donne incinte scendere dal barcone nei nostri porti, il primo, facile pensiero potrebbe essere: ma perché si sono messe in viaggio in queste condizioni? Ebbene, la risposta è molto semplice: quando sono partite queste donne e queste ragazze non erano in stato interessante. La loro gravidanza è molto spesso frutto di abusi. Abusi estremamente crudeli, di gruppo, molto spesso subìti in Libia, lo stato con cui collaboriamo. Non credo sia possibile spiegare in quali condizioni queste ragazze arrivano da noi: devastate nel fisico, nella salute, nella psiche. Ci è capitato di dovere assistere una giovane signora, madre di famiglia, arrivata da noi in stato di gravidanza avanzata e che ha dato alla luce una bimba nata da uno stupro. Ricordo le sue lacrime quando ci chiese di guardare la bambina che aveva appena partorito almeno una volta prima di darla in adozione; ricordo il suo dolore immenso, la sua profonda prostrazione all'idea di dovere tenere questo segreto a suo marito che si trovava ancora in Libia e che avrebbe provato a raggiungerla di lì a qualche mese.
Considerate se questo è un uomo! 
Noi ci occupiamo soprattutto di adulti e di famiglie, per cui i bambini che sono nei nostri progetti sono veramente molto piccoli, anzi, in molti casi nascono qui da noi in Puglia. Inutile dirti che per noi è impossibile considerarli stranieri.

Perché non lo sono, Luca. Sono vicende queste che solo a sentirle raccontate cambiano la vita. Vi sono stati episodi che hanno cambiato la tua, o semplicemente che della vita stessa ti abbiano cambiato la prospettiva?
Un’altra domanda difficile. In realtà la mia prospettiva nel guardare il mondo, quella che mi ha portato ad abbandonare molte delle mie attività precedenti, come per esempio la musica, non nasce da un episodio specifico, ma è stata piuttosto uno scivolamento da una zona a un’altra. Uno sguardo dopo l'altro, un fatto dopo l'altro, una storia dopo l'altra. Io non sono un professionista dell'accoglienza e per fortuna in ARCI Bari ce ne sono di estremamente validi. Io sono un volontario che si trova in questa avventura per impegno civile e non sono capace di mantenere la giusta distanza con le persone: subisco una forte empatia. 
Posso raccontarti del primo ingresso di una beneficiaria a cui ho assistito. L'operatrice le chiese in quale città italiana fosse sbarcata, e lei, che fino a quel momento aveva risposto solo a monosillabi, si liberò in un profluvio di parole; raccontò il suo viaggio dalla Sicilia - luogo in cui era sbarcata - fino a Bari. Disse che in Italia era arrivata con una sua amica della quale però aveva perso ogni traccia e che non sapeva in questo momento dove si trovasse. Poi, all'improvviso, dai suoi occhioni enormi e spaventatissimi – diceva di avere vent’anni, ma sembrava davvero una bambina - iniziarono a uscire delle lacrime gigantesche. D’istinto tirai fuori un fazzoletto e glielo passai, lei lo prese, si asciugò le lacrimone, si alzò in piedi e mi fece un piccolo inchino di gratitudine. “My name is Gift”, mi disse. Ecco, per me fu in un certo senso davvero un regalo. Ricordo che nei giorni a seguire, per scherzare, mi chiese di chiamarla Donatella.

Tu sei stato anche coinvolto in una polemica col segretario della Lega. Ci racconti di quando hai dovuto rispondere a Salvini come Presidente di ARCI Bari?
Si tratta di un episodio estremamente rivelatore del tipo di disinformazione che una certa destra cerca di fare quotidianamente sui progetti di accoglienza. Nel dicembre del 2018 la polizia arrestò a Bari un somalo che era stato intercettato mentre parlava della possibilità di realizzare degli attentati. Salvini se ne uscì con una dichiarazione molto pesante contro il sistema SPRAR: "Ha ottenuto un permesso umanitario ed è stato mantenuto a spese degli italiani in uno SPRAR", disse. Ebbene ci fu molto facile smentire che il presunto terrorista fosse mai stato ospite nel nostro SPRAR, ma lo strafalcione di Salvini ci consentì anche di ricordare come gli SPRAR fossero progetti proprio del Ministero dell’Interno, e come gli inserimenti in accoglienza avvenissero su segnalazione del Ministro stesso; facemmo notare come all'interno di quelle strutture i beneficiari fossero seguiti quotidianamente da operatori specializzati; quindi all’interno di uno SPRAR, attività strane e condotte particolari sarebbero state facilmente individuabili. 
La verità e che i Decreti Sicurezza - oggi possiamo dirlo con serenità e con cognizione di causa - sono stati un provvedimento ideologico che ha causato una quantità enorme di danni e problemi, aumentando l’insicurezza e l’illegalità sui territori. Di fatto hanno riempito le città di persone senza nome e senza carta di identità bisognose di mangiare e dormire, hanno impedito a tante imprese di assumere manodopera, hanno messo i sindaci nella condizione di dovere intervenire con fondi dei servizi sociali per prendere in carico persone che invece facilmente avrebbero potuto iniziare un progetto di inclusione attraverso un percorso in accoglienza. Il mondo alla rovescia insomma: le cose stanno esattamente al contrario di come vengono dette a destra.

Essendo tu un uomo che nella vita si occupa di Pubbliche Relazioni politiche, la quotidiana mediazione con la realtà ha condizionato le tue scelte e le tue valutazioni?
Domanda molto interessante. La prima cosa che mi sento di dire è che la politica dei territori è molto diversa da quella nazionale e da quella che appare in televisione. I sindaci (più o meno di tutti i colori) sanno perfettamente quale straordinario valore aggiunto rappresenti un progetto di seconda accoglienza per la comunità che lo ospita. Un progetto di accoglienza lascia infatti nella cittadina in cui è attivo molti soldi, tra posti di lavoro degli operatori, spese fatte negli esercizi commerciali, affitti, forza lavoro per le aziende del territorio e tanto altro ancora. Quello che serve è l'informazione. Noi di ARCI Bari abbiamo preso l'abitudine di portare in piazza i conti dei nostri progetti e di presentarli in incontri pubblici: al netto del grande orgoglio per quello che facciamo, usiamo soldi pubblici ed è giusto che i cittadini sappiano che cosa ne facciamo. Riteniamo che sia una pratica di ecologia sociale.

Tu sei un uomo culturalmente attivo e sei un artista; hai già spiegato come giorno dopo giorno sei passato da una “vita” a un’altra. So che hai attraversato una profonda crisi interiore. Una conciliazione era impossibile? 
La mia elezione a Presidente, sette anni fa, avvenne in modo davvero imprevisto. In quel momento stavo lavorando contemporaneamente a tre dischi: sono riuscito a completarne solo uno. Questo incarico mi ha progressivamente assorbito tempo ed energie. Più conoscevo dall'interno il funzionamento di questi progetti, le vicende dei beneficiari, le situazioni che venivano a crearsi sui territori, più questa storia mi appassionava, diventava per me totalizzante. Ogni secondo che non dedicavo a questa che per me era diventata un'autentica missione mi sembrava un secondo sprecato. Cosa può esserci di più importante del prendersi cura di una persona in difficoltà? Di una persona a cui è stato fatto del male? Ed è stato così che la musica è passata in secondo piano. 
E tuttavia non ho mai smesso di sentirmi un artista, anche se non suonavo. E, anzi, quello mio di artista è stato un approccio particolare, che mi ha aiutato per attivare una serie di percorsi culturali che hanno coinvolto i beneficiari e alcune situazioni del territorio. Sono sempre riuscito a mettere un po’ d’arte in tutto quello che c’era da fare. Ad ogni modo, la musica non mi ha mai lasciato e ha continuato a darmi emozione. 
Ti racconto un episodio che mi ha aperto il cuore: era il 20 giugno del 2019, avevamo organizzato un incontro pubblico in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, una festa in onore dell'Articolo 10 della Costituzione Italiana. Avevamo preparato un piccolo laboratorio musicale e una ragazza nigeriana dedicò alla nostra città una canzone di Nicola di Bari, La prima cosa bella. Provò a spiegarmi quella scelta con grande semplicità: era un modo per dire grazie alla città che l'aveva accolta e glielo diceva con una canzone, perché fino a quel momento, nella sua breve vita, di bellezza ce n'era stata davvero poca. 
E solo con noi aveva trovato finalmente un momento di serenità.

Luca Basso

Luca Basso

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