85%

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85%

| Laura Scaramozzino

Anche adesso non mi guarda. Mi prende da dietro e mi striscia le labbra sul collo. Non sopporta la mia faccia. Dice che ho gli occhi dell’ingenuo, ma che, quando voglio, so fare certe espressioni da stronzetto. Bastano i capelli sulla fronte e quell’aria da giapponesino del cazzo. Del resto, gli occhi a mandorla li ho sul serio. Avrò avuto qualche antenata proveniente dall’Asia, di quelle che arrivavano apposta in Italia per far le serve dei ricchi. Non so quanto questa storia sia attendibile, però nessuno l’ha mai smentita. Dunque la prendo per vera. Nello stesso modo in cui prendo l’uccello di Michele in mano. Lascio che sia, che accada e basta.
Al lavoro sostiene che io sia una merda. Che non so fare gli ordini e sistemare gli scaffali alla giusta velocità. Urla come fosse mio padre e non mi stupisce. L’unica differenza è che ha la voce più profonda e almeno quindici anni in meno.
Lui mi piace, mi piace per il corpo e la faccia rincagnata. È normale mi urli contro, con un corpo così. Che abbia la fronte aggrottata, il naso schiacciato e le rughe intorno agli angoli delle labbra.
Lui mi voleva e non lo sapeva, io mi eccitavo e finivo nel cesso con la scusa della diarrea.
È sempre stato così. Sesso e disprezzo. Una notte ho sognato di scopare con Freddy Kruger. Anche lui mi chiamava stronzetto. Sentivo il suo petto bruciato contro la pelle liscia della schiena. Era stata una delle scopate migliori della mia vita. E non sono neppure morto nel sonno.
Quando finiamo, Michele mi scruta come non mi riconoscesse. Per un momento, lo stupore gli si condensa negli occhi e resta come sospeso.
«Che cazzo ci sono venuto a fare a casa tua, stronzetto?»
Sembra davvero che non lo sappia.
«Abbiamo scopato». Mi sporgo verso il comodino, afferro il cellulare e guardo l’ora. Ci abbiamo messo dieci minuti scarsi.
«Questo lo so, ma ho fatto una cazzata». Ha un buon odore dopo il sesso. Di umido e terra. Si è messo seduto e ha appoggiato la schiena contro la testiera del letto. Ha le spalle larghe e un collo che trasmette sicurezza. Ho una specie di fobia per i colli sottili. Come dovessero spezzarsi. Il collo di Michele è un collo solido. Viene voglia di vivere solo a guardarlo.
Ho fame improvvisa di cioccolata. Mi volto per alzarmi dal letto e butto lì: «Non hai mica una fidanzata o cose così?»
Michele fa una risata stile Nuova Hollywood. «Non sarai geloso, stronzetto. Mica sono uno che si fa problemi. Solo che lavoriamo insieme e non voglio casini, chiaro?»
Annuisco e appoggio i piedi sul pavimento freddo. Produce un piacevole contrasto con il calore che ho nella pancia.
«E adesso dove cazzo vai? Guarda che il bis sarebbe solo per oggi. Niente minchiate, ok? Telefonate, robe da cozze o cose così».
Infilo le infradito con la bandiera del Brasile e mi stringo nelle spalle. «Vuoi della cioccolata? Ho l’85% in frigo».
Michele ride ancora. «Ti piace la roba forte, eh?»
Lo ignoro, mi alzo e vado in cucina. Apro lo sportello del frigo. È vecchio e cigola come la porta di un horror a basso costo. La luce fredda dell’interno rimanda un riverbero azzurrino che mi ghiaccia la fronte. Resto così per un po’. Agguanto la cioccolata e chiudo lo sportello con un tonfo secco.
Prima di tornare in camera, osservo il cortile dalla finestra, sotto i tetti bituminosi che, in questi cazzo di cortili, ci sono sempre.
Noto due ragazzi e un cane. Il ragazzo più grande ha una canottiera a righe blu e rosse. I capelli stopposi; la pelle è sporca o abbronzata.
Il più piccolo ha una maglietta informe e si china su un carrellino fatto di scarti. C’è un telo verde sopra il carrellino e accanto a una ruota arrugginita è sdraiato un cane, una specie di spinone che si gode una pozza di luce gialla. Che ci fanno nel cortile, chi li ha fatti entrare? Legato al collo del cane c’è uno straccio rosso. I ragazzi trafficano intorno al carrellino. Non parlano, non fanno il minimo rumore. Indossano scarpe di tela e si muovono lentissimi, o forse sono talmente rapidi che non me ne accorgo.
A un certo punto, il più piccolo scosta il telo verde dal carrellino e ci fruga dentro. L’altro gli si avvicina e lo strattona con forza. Il cane solleva la testa e la inclina sul collo, poi torna a sprofondare nella luce. Il bambino vacilla e cade per terra. Non emette un gemito. Si risolleva e si strofina gli occhi. Il più grande gli arriva alle spalle e gli struscia contro. Lui abbassa la testa e si fissa le scarpe. Dopo qualche istante, il più grande lo spinge via e risistema il telo sul carrellino, legandolo ai supporti. Fisso il più piccolo che, inerme, resta in un angolo ombroso del cortile con le mani sugli occhi. Ho l’impressione abbia dei segni rossi sulle braccia, ma da questa distanza non distinguo bene.
«Ehi, stronzetto» grida Michele dalla camera «Porti ‘sto cazzo di cioccolato o vuoi che ti fotta sul tavolo della cucina?»
Non rispondo. Non riesco a staccare gli occhi dai due ragazzi, dal cane e dal carrellino. Michele insiste: «Sei un coglione. Un coglione lento».
Distolgo lo sguardo per un secondo. L’odore fondo della cioccolata mi allarga le narici. Quando torno a guardare nel cortile, i ragazzini sono scomparsi. È rimasto solo il carrellino.
«Ok, stronzetto, facciamo come vuoi tu». La voce di Michele è vicina. Lo vedo spuntare nel vano della porta. Nudo e sfrontato. Altissimo.  
«Abbassa quella cazzo di tapparella».
Mi avvicino all’avvolgibile e getto un’ultima occhiata nel cortile. Abbasso le serrande e vado verso il cassetto. Lo apro e fingo di dover prendere dei tovaglioli. Scosto le posate che sferragliano fastidiose. Impugno il coltello della carne. L’ho usato una volta sola per dividere un’anguria.
Michele avanza nella penombra. Nella mia testa persiste l’immagine del bambino che piange in silenzio e si guarda le scarpe. I segni sulle braccia.
Mi volto di scatto e non penso più a niente.

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