La città dei sensi

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La città dei sensi

| Flora Fusarelli

Fresco di stampa e appena presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino, ho avuto la fortuna di curare personalmente Pasolini. La città dei sensi.
Giommaria Monti è un giornalista, un autore televisivo (Agorà e Cartabianca su Rai 3, Unomattina su Rai 1 per citarne alcuni) e, naturalmente, uno scrittore (Falcone e Borsellino per Editori riuniti, 1996, 2007 e 2008; Falcone e Borsellino. Dieci anni di solitudine per D&M, 2018; Francesco De Gregori. Dell’amore e di altre canzoni per Editori riuniti, 2006; La notte brucia ancora – con Giampaolo Mattei per Sperling & Kupfer, 2008; Hina. Questa è la mia vita – con Marco Ventura per Piemme, 2010).
Ho accettato la curatela di questo saggio per una cosa che mi è balzata immediatamente agli occhi. È il 2022, cento anni dalla nascita del grande Pier Paolo Pasolini. Si susseguono a raffica pubblicazioni su di lui, al punto che sta diventando difficile leggerle tutte ma, bene o male, passano sempre e comunque attraverso la morte del grande poeta, una morte che diventa quasi un sine qua non per la miriade di pubblicazioni, documentari, commemorazioni. Il libro di Monti, al contrario, non analizza affatto la morte di Pasolini, che viene soltanto accennata nell’introduzione. Tutto passa per i pasoliniani sensi e per la pasoliniana poetica attraverso gli scritti, i pensieri, le poesie e, dunque, la vita del poeta.
Nel saggio si compie un viaggio conturbante e affascinante attraverso la Roma di Pasolini, più precisamente attraverso la periferia romana, un percorso cittadino che pare non avere alcun confine, confondersi in delimitazioni sfocate e sbavate che sbiadiscono sempre di più fino alla creazione di una metropoli senza punti di riferimento, indistinta eppure pullulante di vite, di caratteristiche uniche, di odori e sapori che sconvolgono i sensi.
Un’intuizione che, quel Pasolini notoriamente visionario, aveva avuto in tempi non sospetti preannunciando il disfacimento di una metropoli che, nonostante tutto, resta meravigliosamente imperfetta come Giommaria Monti non manca di spiegarci:

«Lo sguardo di Pasolini dentro la città ha una connotazione precisa e sempre uguale: la fascinazione, ovvero l’ipnosi, la rarefazione dell’immagine nello sguardo magnetizzato. Il soggetto privato della propria autorità, della propria capacità di concretizzare la visione in una parola che sia in grado di rendere accessibile alla coscienza quello che vede, di renderlo comprensibile a sé».

L’impatto dello scontro tra mondo contadino e mondo cittadino, non impedisce a Pasolini di ricavare da questa sorta di shock addizionale un’analisi attenta, puntuale, profonda e onirica di un luogo – Roma – che appare quasi “sano”:

«Le borgate romane mi appaiono come un’apparizione, un sogno, un sogno stilistico, come un sacrario del sottoproletariato, come un mondo concluso».
(Pasolini rilegge Pasolini, Archinto Editore, 2005)

La contrapposizione tra luce e ombra, la consapevolezza che una non può esistere senza l’altra, crea una dicotomia che è poi ravvisabile in tutta la vita e in tutta la poetica pasoliniana. Nessuno infatti, più di Pasolini, è stato definito contraddittorio e ambivalente. Monti non coglie l’aspetto negativo di tali contraddittorietà, ma le fonde in uno sguardo d’insieme attraverso l’attenta analisi delle ragioni.
Direi a questo punto che sarebbe opportuno che fosse lo stesso autore, al quale ho fatto qualche domanda per i lettori, a svelarci meglio i passaggi e i pensieri che lo hanno portato al concepimento di questo percorso attraverso l’immaginario – fortemente realistico – che si crea attraverso la tipica onestà intellettuale di Pier Paolo Pasolini:

Chi è Giommaria Monti?
Un sardo trapiantato a Roma a 19 anni per studiare Lettere a La Sapienza. Il mio sogno era insegnare, magari all’Università. L’ho anche fatto, per un paio d’anni. Collaboravo con una radio nazionale di informazione, Italia Radio. Mi chiesero di entrare in redazione, accettai con un po' di ritrosia: significava non insegnare più e non occuparmi più di cultura, ma di cronaca e politica. Così, nel 1991, mi hanno mandato sul molo di Livorno per la tragedia della Moby Prince. L’anno dopo a Capaci e a via D’Amelio, il giorno dopo le stragi. Cambiò la mia vita, ma questo conta poco: nel 1992 cambiò la storia d’Italia. Su Falcone e Borsellino scrissi un libro nel 1996, raccogliendo i documenti che raccontavano come li avessero osteggiati in tutti i modi nel loro lavoro: colleghi, giornali, parte delle istituzioni.  Tutti quelli che oggi si dichiarano amici di Giovanni e Paolo dovrebbero rileggersi quelle carte (atti del Csm, articoli di giornali, trasmissioni): molti troveranno i loro nomi tra quelli che definivano Falcone il giudice sceriffo e Borsellino un professionista dell’antimafia. Magari proveranno un po’ di vergogna, quando sfilano in passerella nell’aula bunker ogni anno il 23 maggio per commemorare i loro “amici” Giovanni e Paolo.

Perché questa pubblicazione su Pasolini? Da dove arriva?
Dai giorni dell’Università. Ho studiato con Biancamaria Frabotta, una poetessa straordinaria e una docente universitaria rara. Per puro caso abitavo a Pietralata, il quartiere dove Pasolini ambienta la storia di Tommaso Puzzilli, il protagonista di Una vita violenta. Ma davvero era un caso: Pietralata è un quartiere periferico a ridosso della Tiburtina, abbastanza comodo per raggiungere l’università La Sapienza per studenti squattrinati come me.
Cominciai a leggere Pasolini e ne rimasi folgorato per la forza del racconto, soprattutto in versi, della città di Roma. Una cartografia umana che mi parlava. Quando si trattò di scegliere la tesi, proposi a Biancamaria Frabotta Pasolini e la forma della città, a lei piacque molto l’idea e così mi misi a leggere e studiare. Biancamaria dopo la laurea fece il mio nome a Laura Betti, la vestale di Pasolini e creatrice del Fondo Pasolini, quando le chiese uno studente da portare a Venezia per la retrospettiva sul cinema di Pasolini. La Betti voleva ci fossero una ventina di studenti o neolaureati. Dopo Venezia andai a lavorare per due anni al Fondo Pasolini con Laura e conobbi ogni carta, ogni fotogramma, ogni dettaglio di Pasolini. Poi iniziai a fare il giornalista e Pasolini restò sempre per me un nume tutelare.
Tre anni fa mia figlia si laurea in architettura, parliamo molto di urbanistica e forma della città. A me torna tutto in mente e mi convinco che posso scrivere di Pasolini e Roma in una chiave diversa e attuale. È così che nasce Pasolini. La città dei sensi. Ho un dolore enorme legato all’uscita del libro. Dovevo chiamare Biancamaria Frabotta con la quale ero rimasto sempre in contatto in tutti questi anni e dirle: “Ho pubblicato il libro su Pasolini, devo dartelo; anche perché c’è il ringraziamento a te e al tuo stimolo in tutti questi anni”. Dovevo chiamarla, ho rimandato e una settimana prima che il libro fosse stampato Biancamaria è morta. Senza che fossi riuscito a darle il libro, nemmeno a parlargliene.

Monti al Salone Internazionale del Libro di Torino

Scrivere Pasolini attraverso i sensi non rischia di creare qualcosa di “scollato” dalla realtà? Non si crea una sorta di mistificazione?
Se c’è un poeta capace di sprofondare il lettore nella realtà, quello è Pasolini. Quando parlo di sensi intendo la vista, l’olfatto, la tattilità. Nella sua poesia c’è tutto questo e cerco di cogliere l’occhio vivente che attraversa la città con uno sguardo che individua i dettagli grazie alla luce. È una vera ricognizione quella che compie dentro la città, dove racconta gli odori della vita, il dedalo delle strade, gli oggetti toccati con “dita sudate”. Non solo non c’è nessuna mistificazione, ma è il modo più profondo di attraversare la sua opera.
I sensi sono l’approccio più diretto col reale, senza il filtro culturale e ideologico, il modo che ha un poeta come lui di restituire la dimensione del mondo che racconta. Nei suoi versi c’è una sorta di neorealismo poetico in bianco e nero, che rende la sua poetica tra le più interessanti per capire la trasformazione dell’Italia dal dopoguerra.   

Quali sono i tratti comuni in relazione alle due diverse realtà del Pasolini romano e di quello Friulano?
Pasolini è nato a Bologna, ma è vissuto in Friuli, a Casarsa della Delizia e non solo. Le sue prime prove poetiche sono in dialetto friulano e raccontano un mondo al confine, un punto di congiunzione tra l’Italia e la Mitteleuropa. Naturalmente lui non scrive di questo, ma scrive di soggetti sulla soglia di un mondo in divenire, che hanno una creaturalità arcaica, contadina, pura: incontaminata. Quel mondo lo cerca dentro le borgate romane, la cintura tra la campagna e la città, il luogo dove “la borghese storia non entra”, come scrive ne Le ceneri di Gramsci. Cerca dentro quel luogo magmatico fatto di baracche e fango, di palazzoni in costruzione e prati al confine della città un’umanità in transito, come la definisce, che aspira a diventare altro. Cerca in quei soggetti quella purezza non contaminata dal consumismo, dalla storia borghese, dai bisogni materiali che aveva lasciato nel Friuli del dopoguerra. Ma non è così, sono due mondi profondamente diversi e Pasolini mitizza un’umanità che è molto più elementare nelle aspirazioni: il sogno è quello di entrare dentro la città, dentro i palazzi popolari che sorgono come mura di un moderno medioevo dentro le periferie. È la storia di Mamma Roma, insomma.

Quanta importanza hanno avuto i luoghi nella poetica e nella vita di Pasolini, nonché nei suoi film?
Un’importanza enorme: come scrivo all’inizio del libro, non è difficile individuare un nucleo centrale nella poetica di Pasolini, anzi è difficile discostarsi da quello una volta che lo si sia individuato. Ed è appunto la città. Pasolini sta a Roma come Baudelaire sta a Parigi: il poeta francese ha raccontato Parigi capitale del XIX secolo, il trionfo della modernità, della grandezza della città. Pasolini racconta la fine di quella modernità in una città che diventa metropoli, che non ha più un centro, ma molti centri che tutto ingoiano. Nelle poesie, ma anche nei romanzi e ovviamente nei film, c’è una vera e propria cartografia urbana che il soggetto che la attraversa disegna in ogni scena, in ogni verso, in ogni descrizione in prosa. Usa i toponimi, i nomi delle vie, dei quartieri, dei luoghi per circoscrivere i luoghi da raccontare. È un viaggio, quello che fa un vero occhio vivente dentro la città, dove la luce e il buio sono i due termini che usa per descrivere quei luoghi. In questo c’è la lezione pittorica di Longhi, di cui fu allievo.

Secondo lei c'è, nel nostro panorama letterario, qualche autore che - ovviamente fatte le dovute differenze - può essere accostato a Pasolini? 
Francamente non saprei. Pasolini era talmente unico nell’approccio alle arti che non ce ne sono analoghi. È stato poeta, romanziere, regista, autore teatrale, pittore, autore di canzoni (perfino con Domenico Modugno: Che cosa sono le nuvole), giornalista… E questo è il tratto che lo rende unico. E poi è un intellettuale vissuto in un’epoca magmatica: il dopoguerra, il boom economico, la nascita del terrorismo. Avere una visione del genere è, come avrebbe detto lui, un privilegio di anagrafe. Nessuno come lui ha cercato di usare tutti gli strumenti a disposizione dell’arte per raccontare il suo tempo. Né prima, né dopo.

Pasolini: La città dei sensi

 di Giommaria Monti
Diadema - 2022

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Flora Fusanelli

Flora Fusarelli

Appassionata di letteratura e autrice di numerose recensioni di libri, si occupa di editoria e ha pubblicato il suo primo romanzo "Le deboli".

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