La Nera di Dino Buzzati

Referenze

La Nera di Dino Buzzati

| Elisabetta Malantrucco

Provare a raccontare un volume di quasi seicento pagine - stampato in una carta piacevole al tatto, pieno di illustrazioni, dettagli, schede informative e così ricco di contenuti, poesia e spunti – non è semplice; il rischio è la dispersione delle idee, la confusione dei piani, la perdita del tema: in poche parole si rischia il caos.

Un modo, quello che si tenterà in queste righe, è provare ad affrontarlo scomponendolo come si farebbe per una operazione matematica; semplificare, per cercare di individuare alcuni passaggi che ritornano, che richiamano, che possono aiutare in un tentativo di sintesi.

Partendo dal mero contenuto, va subito spiegato che si tratta di una raccolta, pressoché esaustiva, degli articoli di Cronaca Nera che Dino Buzzati scrisse, per il Corriere della Sera e il Corriere d’informazione, a partire dal 1945 fino al 1971, poco prima della sua scomparsa. In realtà, e per la precisione, esiste, nel volume, una sezione di 15 brevi di cronaca nera, scritte nel 1929, un anno dopo l’ingresso di Buzzati nella redazione di Via Solferino.

La prima edizione della raccolta risale al 2002, ma la nuova mette insieme, oltre alla sezione Crimini e misteri, anche la sezione Incubi, precedentemente oggetto di altro volume; inoltre sono stati inseriti articoli e casi che mancavano e, soprattutto, del tutto nuovo è l’apparato iconografico, fondamentale per una lettura totale, una immersione nel mondo raccontato da Buzzati attraverso i suoi occhi. Infatti, oltre alle pagine di giornale e le foto dei protagonisti - che aiutano a immergersi anche visivamente nell’Italia urbana del dopoguerra e del boom economico - vi sono anche tanti disegni e fumetti dell’autore stesso a corredo dei casi. La stessa copertina è tratta da un dipinto dell’autore.

Si tratta quindi, come prima cosa, di un bellissimo oggetto da possedere: i libri raccolgono pensieri, sentimenti e idee e quindi va benissimo conservarli nelle tasche, sgualcirli, usarli nella Metro! Ma possono anche essere un accogliente e confortevole “vestito” per quei pensieri, per quei sentimenti e per quelle idee. Tante storie narrate meritano una bella fattura; questo volume è quindi, come prima cosa, una raffinata e calda maglia di cachemire realizzata con mani di fata. È una immagine non scelta a caso, perché il mondo che si ritrova in questo libro è proprio brulicante di donne che fanno la maglia e preparano la minestra calda con amore per i figlioli tornati a casa con le loro cartelle e le braccia sporcate dall’inchiostro del calamaio.

Il secondo punto da affrontare riguarda il tema del volume stesso e cioè il giornalismo nella sua forma solo all’apparenza meno “nobile”: la Cronaca. E la Nera in particolare; e, in particolare, naturalmente, Il giornalismo e la cronaca nera di uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, il meraviglioso Dino Buzzati.

È abbastanza nota la storia anomala del giornalismo in Italia. Nel mondo anglosassone il giornalista è soprattutto un cronista, e anche come immagine iconografica l’idea è quella dell’uomo arrembante e senza scrupolo, sempre sulla strada, con la macchina catorcio e la sigaretta in bocca, amico degli informatori e di qualche agente di polizia facile alla corruzione; un uomo di lettere ma solo nel senso della velocità nel compitarle sulla macchina da scrivere. In Italia, invece, il giornalista è o mira a far parte della classe intellettuale, si immagina sempre impegnato a scrivere editoriali e corsivi, a incidere sull’opinione pubblica. La cronaca è al massimo un passaggio di formazione, come lo era anche nell’Ottocento, a unità d’Italia compiuta, per i vari Scarfoglio, Serao, per lo stesso d’Annunzio che si occupava di cronaca mondana, o per Carlo Lorenzini detto Collodi, prima di scrivere un libro, sotto forma di fiaba, sulla formazione di un giovane italiano di nome Pinocchio. Per guadagnare il cibo, i giornalisti facevano (o si inventavano) cronaca, o magari davano ripetizioni o insegnavano a scuola con, spesso, un senso altissimo di frustrazione. Di certo ora molto è cambiato, ma in qualche modo potremmo dire ancora oggi, in fondo, che molti giovani cronisti sognano di essere Enzo Biagi e non Jack Lemmon o Walter Matthau. Oppure sognano di diventare grandi reporter di inchiesta, eroi dei luoghi di guerra… In un modo o in un altro il passaggio della cronaca è gavetta allo stato puro e spesso è, oramai, solo una vaga rielaborazione di una notizia di agenzia.

Questa, che è una evidente ed eccessiva semplificazione di una realtà ovviamente molto più variegata, serve però a spiegare proprio la specifica originalità di Buzzati, che trasforma fatti di cronaca nera in narrazioni quasi visive di spaccati di costume e società, fino a riuscire, nel tempo, a rileggere la realtà attraverso la sua sensibilità di letterato e anche la sua personale poetica dell’attesa e della morte.

Già negli scritti del 1929 - nelle brevi così ossequiose allo stile e alle norme imposte a un giovane redattore - la penna di Buzzati lascia intravedere molto di più che il mero fatto di cronaca. Nel Messaggero di inizio secolo, chi portava Il fatto nuovo – anche l’uomo della strada – veniva ripagato con una moneta e le notizie erano le più disparate: anche il salvataggio di una mamma gatta (che poteva ricongiungersi finalmente ai suoi micetti) trovava spazio nel giornale: a sfogliare quegli antichi fogli, sembra quasi di trovarsi di fronte a un prototipo di social network.

Ecco: nel mondo raccontato da Buzzati si resta invece sempre nell’ambito letterario, pur riuscendo, soprattutto nei primi anni, ad assolvere perfettamente al ruolo di cronista. Anzi: Buzzati va molto oltre, perché si immedesima, si butta sulla scena del delitto, immagina l’incedere dell’assassino, la sua disperazione, il suo male oscuro, la sua sete di morte, immagina la morte stessa che si muove e aspetta, per poi agire senza pietà. E poi l’autore immagina e lascia immaginare la serenità inconsapevole della futura vittima, la sua grazia incolpevole e disperante, la sua imminente tragedia. E – incredibilmente – lo fa senza adoperare mai un filo di retorica, se non qualche ammiccamento al ben pensare dei lettori, che si aspettano sempre una qualche morale alla fine, come in una favola sanguinaria alla Cappuccetto Rosso: molti non lo sanno, ma la verità è che nella fiaba originale la povera Cappuccetto finisce divorata dal lupo e basta. Come anche la povera nonnina. E il Cacciatore serve solo a vendicare. Il tutto serviva a spaventare i bambini e a metterli in guardia; la morale era non perdersi e non dare confidenza agli sconosciuti. Ecco: esisteva – forse esiste ancora – un mondo di riferimento per quei giornali che cercano la morale finale.

Nel tempo, leggendo questi articoli uno dietro l’altro, si capisce che la morale di Buzzati è che nella vita esiste la “banalità” del male (ci si consenta la citazione), esiste la morte quasi fosse una persona – e a volte appare anche come consolazione – e esiste il germe della follia anche nei contesti più borghesi, rassicuranti e mediocri che si possano immaginare.

Ed è qui un altro punto essenziale che consiglia la lettura di questo libro: la descrizione (all’inizio passiva ma poi nel tempo sempre più evidentemente consapevole) di un mondo piccolo borghese, all’inizio sbandato da un dopoguerra difficile e poi stordito dal boom. Un mondo che tende ad uscire dal proletariato, rivestendosi di abiti e oggetti prettamente – ribadiamo – piccolo borghesi, che accoglie a stento la prima emigrazione dal sud verso il nord. Perché, è fondamentale dirlo, quella che viene descritta è la realtà di Milano, sopra ogni altra cosa, anche se probabilmente in quegli anni quella realtà non era troppo dissimile da altre realtà urbane del nord, almeno per taluni aspetti sociali. Ad ogni modo ciò che è certo è che queste figure si somigliano, che siano vittime, carnefici, testimoni, banditi, benpensanti in pelliccia, immigrati, panettieri, negozianti, casalinghe, bambini: sono lo spaccato di una Italia piccola e operosa, così semplice da nascondere dentro frustrazione, paura e impensabili anime nere. Ma anche tanta voglia di vivere e di riuscire.

In questo contesto, con perizia e dovizia, Buzzati si fa cronista scrupoloso e attento; si percepisce la solidarietà per le vittime ma talvolta anche la comprensione per il carnefice, l’occhio distante dell’osservatore ma anche la partecipazione umana verso la difficoltà. E lo si percepisce soprattutto nella seconda parte del libro: negli Incubi. Perché se la prima parte, Crimini e misteri, è soprattutto dedicata ai casi di cronaca nera – a partire da quelli noti come il delitto di Rina Fort – la seconda è dedicata alle grandi tragedie italiane, come Superga e il Grande Torino, o come il Vajont. Perché qui soprattutto (anche se non solo qu), quello che fa Buzzati è geniale: più che soffermarsi infatti sulle tragedie – e lo fa anche bene, raccontando dei corpi delle vittime straziate, dei testimoni rimasti, della pietà per mogli e madri, ecc. – si dedica ai sentimenti del lettore. Spiegandoli, giustificandoli spesso, immedesimandosi, interpretandoli. E senza un filo di presunzione. Una modalità davvero fenomenale.

Del resto, molti di questi si trasformano da articoli di cronaca a piccoli racconti fantastici in cui Buzzati fa parlare vittime e carnefici, immaginando pensieri e situazioni. Due per tutti: il diario della vittima di una nave che scompare nel Triangolo delle Bermude e che prosegue senza soluzione di continuità tra vita e morte (quanto Deserto dei Tartari in quell’articolo!), oppure l’esilarante racconto di un salotto bene che accoglie un brutale bandito assassino e rapinatore, rivelatosi infine essere, agli occhi delle assatanate ricche signore, un banale e tristissimo bandito piccolo borghese che “tiene famiglia”.

Forse non c’è più spazio nel nostro mondo per questo tipo di cronaca e giornalismo, ma di certo c’è spazio per scoprire la ricchezza della nostra storia del Novecento attraverso il racconto di un grande letterato, anzi, più semplicemente, di un grande italiano.

 

La Nera

 di Dino Buzzati (a cura di Lorenzo Viganò)
Mondadori, Oscar Moderni Baobab – 2020

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