La supervita spericolata di Vasco

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La supervita spericolata di Vasco

| Elisabetta Malantrucco

“Vasco Rossi – Il supervissuto” è una serie Netflix in cinque puntate, uscita nel settembre del 2023 ma ancora attuale, come attuale resta la figura del cantautore di Zocca; qualche fan accanito aggiungerebbe, in maniera epica, che la sua figura, più che attuale, è decisamente “immortale”.

Senza scomodare idolatrie e retoriche che troppo spesso finiscono per trasformare i critici in tifosi dissennati, va detto però che, nel caso di Vasco, non è certo in discussione come il suo pubblico partecipi con entusiasmo e in maniera oceanica ai suoi concerti e soprattutto come il suo pubblico non sia formato da un gruppo - seppur incredibilmente numeroso - di boomer nostalgici degli anni Ottanta, ma continui ad essere oltre che immenso, anche rappresentativo di età e classi sociali. Chi scrive ha avuto modo di assistere per esempio al Concerto del Circo Massimo del 2022, trovandosi di fronte ogni tipo di umanità, dal nostalgico sessantenne con la canna pronta, all’adolescente con la birra firmata “Vasco” in mano (di acqua nemmeno a parlarne), fino ai bambini – gioiosi - portati da genitori quarantenni: si potrebbe continuare facendo riferimento anche alle tipologie umane e sociali. Conta poco, né qui si intende fare un’indagine socioculturale su un fenomeno così esaltante e anche molto italiano (questa forse la parte più interessante) che ha anche la fortuna di procurare per lo più felicità a chi ne gode.

In realtà in questo scritto il documentario è un po’ il pretesto per seguire due strade, quella della storia umana e artistica di Vasco e quella del nuovo filone dei documentari musicali che sta ormai prendendo sempre più piede nel nostro Paese, visti i grandi riscontri di pubblico al cinema, dove vengono presentati inizialmente come eventi speciali, per poi restare in sala nel caso di successo al botteghino (è capitato per esempio con "Paolo Conte, via con me" di Giorgio Verdelli), passando poi nelle varie piattaforme. Si può partire anzi da qui, facendo un passo in avanti e alla fortuna che ha avuto il documentario su Giorgio Gaber, diretto da Riccardo Milani, dal titolo Io, noi e Gaber. Promosso dalla Fondazione Gaber, da Atomic, dalla Rai e Istituto Luce, è rimasto a lungo nelle sale e riproposto di recente in prima serata dalla Rai (il lavoro è ancora disponibile alla visione su Raiplay come peraltro quello su Conte sopra citato). In realtà si tratta di un film in cui la vera impronta è data dalla figlia Dalia Gaberscik. Il successo è stato grande, nelle sale tutti cantavano, anche se molti esperti gaberiani hanno lamentato vari disequilibri nel racconto: l’aver trascurato alcuni passaggi dando troppo risalto ad altri, aver ignorato figure fondamentali nella storia artistica di Gaber come quelle di Maria Monti e dato spazio ad altre senza un’apparente ragione (un esempio su tutti: Jovanotti), togliendo magari spazio ad altre figure ancora, di cui maggiormente si sarebbe voluto conoscere il pensiero, come Ivano Fossati, che dice pochissime cose ma che di Gaber sa moltissimo e ha fatto anche conferenze nei teatri proprio sull’argomento…  

Insomma, ecco il punto: questi documentari (un altro esempio è quello recente, sempre disponibile su Rayplay, su Battisti – Luci per amico. Ricordando Battisti  - che ha trascurato totalmente la storia dei dischi realizzati con Panella) hanno necessariamente delle lacune che risentono, come è ovvio, del piacere e della visione, della percezione e delle conoscenze di chi li scrive; e se questa può sembrare in linea generale una banalità, non lo è affatto  quando un lavoro si presenta in forma di documentario, dal quale ci aspettiamo qualcosa di nuovo, di non rivelato. In questo senso un’operazione più che convincente è stata quella delle infinite e magnifiche ore di filmato del “The Beatles - Get Back”, Original Disney, vero e proprio evento della fine del 2021.

Il documentario su Vasco, in questo senso, appare da subito pieno di sorprese e soprattutto sa mostrare in maniera convincente la figura amata e complessa del protagonista.

La serie è stata girata durante la pandemia di Covid 19 e scritta da Igor Artibani e Guglielmo Ariè, insieme con il regista Pepsy Romanoff. Eppure è chiaramente Vasco Rossi l’anima volente e pensante del documentario, sia nella scelta di ogni passaggio, sia di come raccontarlo. E se questo porta a un risultato evidentemente non obiettivo, però mostra tantissimo di originale e inedito, raccoglie - dando un senso e un costrutto - molto materiale e dà una visione di insieme anche al di là delle intenzioni degli autori, Vasco compreso. Proviamo a capire in che senso.

Innanzitutto, dietro la storia di Vasco Rossi c’è anche la storia di una certa Italia, l’Italia centrale, d’Appennino, con il cuore in montagna e lo spirito che anela al mare; è la storia di una resistenza interiore, quella di un artista che alla fine, attraversando in maniera costante, seppur a volte perigliosa, vita e carriera, ha mostrato prima di tutto di essere un uomo solido. Solido nell’ispirazione artistica, ma anche solido come persona e come esempio. E non tanto perché la sua vera rivoluzione individuale è stata evidentemente quella di mettere su famiglia e costruire rifugi sicuri, non solo geografici ma anche umani (il gruppo dello staff, fatto sostanzialmente dagli amici di sempre, è un non luogo che somiglia a una fortezza arroccata che guarda il mare dall’alto). Vasco in questo documentario mostra cioè che la sua suggestione, la sua White Rot, il suo modo punk di intendere la vita tocca ogni livello, perché anche laddove sembra scegliere strade convenzionali, in realtà lo fa in quanto Vasco: Vasco persona e Vasco icona, Vasco Rocker e Vasco Cantautore, Vasco provocatore e Vasco Sally: Vasco che pensa, Vasco che ama, Vasco che sogna, “ogni volta che viene giorno”.

E mentre le immagini che raccontano tutto questo scorrono, qualcosa resta evidente: Vasco è – ribadiamolo - un uomo solido che ha avuto le idee chiare da subito e fregandosene totalmente delle difficoltà, della vita intorno, dei mezzi di partenza, le ha perseguite, realizzando i suoi sogni.

E lo ha fatto nel modo migliore possibile per un artista: raccontando se stesso e la sua generazione. Ed è innegabile che nessuno come lui ha saputo raccontare gli anni Ottanta. E se a quell’epoca era confusa l’idea della strada che Vasco stava percorrendo, ora tutti sanno che si era in realtà ben lontani dal riflusso o dall’edonismo reaganiano, ben lontani da certi falsi miti di benessere posticcio. Ora tutti sanno che in realtà Vasco ha raccontato le sue intenzioni e poi i dubbi, le scivolate, le cose più amate, il sesso, lo stordimento, la perdita della visione collettiva del mondo, la crisi politica post Settantasette.

Lo ha fatto illuminato da un unico vero faro, che non è Vasco Rossi: è il Rock.

Ci sono spesso discussioni – talvolta sterili – sulla “genuinità” del Rock di Vasco, un po’ come quando si discute della cipolla nell’amatriciana o la pancetta nella carbonara. Sono discorsi abbastanza vuoti, a parere di chi scrive, tanto più che da una parte il Rock è un modo semplice e diretto di interpretare la musica, dall’altra il successo del Rock (questo sì che è immortale!) è dato in maniera primaria dall’idea che dà di se stesso. Non vorremmo scomodare il famoso “Rock e Lento” di Celentano nella sua performance televisiva di qualche anno fa, ma di questo si tratta. Non serve molto a capire se quello di Vasco sia “puro Rock”, perché in realtà il cantautore di Zocca ha creato il suo personale genere musicale, ma in qualità di Rocker, anzi, meglio: in qualità di Rockstar.

Insomma: Vasco è un rocker, un rocker italiano che ha smosso un’intera generazione, che intanto è cresciuta, ha studiato, lavora, ha figliato, eccetera, e che, o interpreta “in maniera rock” la propria routine, o vede in Vasco e in quelli come lui (ma ne esistono come lui?) un modello da inseguire al di fuori della propria vita che magari non è stata affatto spericolata.

Di questo parla il documentario? certo che no! Questo è però quello che appare tra le righe.

Il film parla di Vasco, della sua musica, dei suoi dischi, della sua radio, dei suoi musicisti, dei suoi collaboratori: quelli che mostrano chiaramente come un vero successo sia dato dalla condivisione, dal gioco di squadra.

SI vede per esempio la gratitudine di Vasco quando - parlando senza veli e serenamente dei momenti duri - fa capire anche come quella fortezza, quella cintura intorno, a cui abbiamo accennato prima, abbia funzionato da copertura. Lo si vede anche ai concerti quanto spazio Vasco lasci ai suoi musicisti, per esempio. Come siano il suo orgoglio quasi quanto le sue canzoni.

Il bello di questo documentario è in definitiva anche il suo più grave difetto: l’agiografia della narrazione è infatti quella che permette di partecipare, di passeggiare, di condividere e di comprendere lui e ciò che lo circonda, in maniera profonda e viscerale.

Per esempio, entrare nelle sue case o ascoltare i racconti di sua moglie non è affatto un guardare attraverso il buco della serratura, come in un social si guarda la vita finta degli influencer. No: pur nella discrezione totale, si subisce il fascino di quando un artista racconta se stesso e la sua intimità, senza mai scadere nel voyeurismo e nella pornografia.

Vasco è forse il più importante fenomeno pop della storia italiana. Ma non si tratta solo di un fenomeno socioculturale: in realtà si tratta di musica. Il racconto in canzone è più importante di tutto il resto. Vasco, senza gli osanna della critica (almeno all’inizio) ha costruito un patrimonio culturale di canzoni d’autore straordinario e pieno di poesia. Non le ha scritte solo per sé. E senza mai tirarsela, o che sia mai al centro della narrazione, questo fatto emerge in continuazione guardando e ascoltando la serie.

Eccolo quindi Vasco, un uomo della provincia italiana e delle montagne, dalle quali ha visto un sogno e lo ha inseguito. Con costanza, metodo, scivolate, musica, amici, amore, groove, autorialità e poesia ha costruito un genere musicale, dando senso alla vita (“anche se questa vita un senso non ce l’ha”).

Del resto ci sono molti modi per affrontarla, la vita. Si può anche superviverla. E Vasco, nel farlo, non ha neanche avuto bisogno di ritrovarsi, come le star, a bere de whisky in un qualsiasi bar alla moda, lì in Centro.

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