Sanremo, Club Tenco e la Canzone d’Autore

Idee

Sanremo, Club Tenco e la Canzone d’Autore

| Elisabetta Malantrucco

Una delle regole da seguire, se si intende scrivere un buon articolo, è quella di non utilizzare la prima persona singolare nel racconto. È una regola d’eleganza, in un mondo dove l’Ego tende ad espandersi con troppa facilità e spesso siamo obbligati a leggere articoli di illustri sconosciuti, convinti di essere posseduti dal fantasma di Enzo Biagi.

Ogni regola però ha le sue eccezioni e in questo caso sono costretta, per l’argomento affrontato - che mi ha visto testimone degli avvenimenti a cui farò riferimento – ad usare la prima persona.

Queste parole nascono da alcune riflessioni indotte dalla lettura di un altro articolo, molto ben scritto per intenzione costruttiva, su una rivista cartacea davvero preziosa. Si chiama Awand, è edita da SquiLibri, è diretta da Antonio Cornacchia e la si può acquistare sul sito, in alcuni punti vendita e abbonandosi. A me piace perché – un po’ come fa Pane e Scorpioni - non discrimina tra le arti e non fa classifiche. Si occupa e approfondisce, tramite interviste ricchissime, di Cultura. E nell’ultimo numero ha accolto le parole del Prof. Domenico Ferraro – che è anche l’editore del giornale – in merito al Club Tenco e alla Rassegna della Canzone d’Autore che si tiene a Sanremo dal 1974, per iniziativa di un operatore culturale straordinario, che si chiamava Amilcare Rambaldi e che prima fu tra gli ideatori del Festival di Sanremo e che poi, dopo la morte sconvolgente di Luigi Tenco nel 1967, decise di fornire una casa ai cantautori. Come dicevo, queste righe intendono rispondere, ma soprattutto tenere vivo un dibattito su un argomento molto importante in questo passaggio storico così complesso per la cosiddetta “musica di qualità”.  E queste righe sono anche sollecitate da alcune parole condivise sui social da Andrea Satta, frontman del gruppo romano Têtes de Bois, anch’egli operatore culturale di lungo corso. Lo abbiamo incontrato in passato proprio qui su Pane e Scorpioni e di recente è uscito con un album da solista, dal titolo Niente di nuovo tranne te.

Andrea per le sue parole si è lasciato invece ispirare – se così si può dire - dal recente Festival di Sanremo. Perché in Italia non si può evidentemente parlare di un certo tipo di musica senza affrontare anche il problema “Festival di Sanremo”: tutti questi discorsi sono indissolubilmente legati. L’idea è cercare di capire perché ma anche provare a trovare un modo, se esiste, per districare il nodo.

C’è qualcuno che senza dubbio accomuna qui tutte le parti in causa: è Sergio Staino.
Staino, scomparso di recente, ha avuto un ruolo dirigenziale – per qualche anno e fino alla sua morte - all’interno del Club Tenco e proprio con lui si chiude l’articolo di Ferraro. Per Andrea Satta era come un padre. Per me, che l’ho conosciuto proprio grazie ad Andrea e alla mia amica giornalista Timisoara Pinto, è stato un grande amore. Un grande amore intellettuale, nato quando da ragazzina leggevo Tango! e Cuore e guardavo come a un esempio da imitare a quel mondo e a quell’ideale factory, a quell’intellighenzia che ruotava intorno a quei giornali, che si trattasse di Stefano Benni o Michele Serra, di Staino, Elle Kappa o Altan, di David Riondino o Gino&Michele: erano loro i riferimenti miei e di una generazione passata appunto da Tango! a Cuore e dal diario di Jacovitti alla Smemoranda, senza soluzione di continuità. E non scriverei certo tutto questo se fosse irrilevante per il racconto che voglio fare: ne è parte integrante invece, perché è tutto legato e necessario per capire quanto l’elemento della Canzone d’Autore – che di quel mondo faceva parte - non sia importante solo per chi la musica la fa, ma anche per la crescita culturale di questo Paese. L’intuizione di Amilcare Rambaldi, insomma, nel modo in cui al Tenco si è realizzata, è tuttora attuale. Non negli attori, ma nell’idea.
Sergio Staino questo spirito di unione lo incarnava totalmente. E questo è il motivo per cui l’ho amato ancora di più quando ho avuto la fortuna di conoscerlo.
Sergio incarnava questo spirito di unione e incontro, dicevo, fino ad arrivare allo scontro. E questa non deve apparire una contraddizione: io mi sono scontrata con lui e per fortuna chiarita appena in tempo. Non sempre è il momento per incontrarsi e forse questo Sergio non lo accettava. Il fatto però che sempre ci credesse e sperasse era una sicurezza per chiunque avesse a che fare con lui.
È quindi pensando a lui che scrivo queste parole e che lo faccio in prima persona.

Sono parole che riguardano non solo il Club Tenco, ma anche il Festival di Sanremo, e soprattutto il ruolo che la Canzone d’Autore ha ricoperto e ricopre nell’ambito della Popular Music italiana.
Il primo equivoco che andrebbe risolto è relativo al significato che si dà alle parole e che cosa si intenda per Canzone d’Autore. E anche che cosa si intenda per canzone pop.
Le canzoni sono tutte pop e nascono come beni di consumo; non è certo necessario fare la storia della discografia, anche perché la stessa richiederebbe una competenza specifica. Ma di fondo la nascita del supporto fonografico da un lato e la diffusione della Radio dall’altra, hanno reso le canzoni, durante il Novecento, un elemento essenziale nella vita delle persone; le canzoni sono servite per ballare, per distrarsi, per rilassarsi, per fidanzarsi. Più gli strumenti di riproduzione della musica sono divenuti anche economicamente accessibili, più la “canzonetta” è diventata un bene perfettamente inserito nei discorsi di mercato. Dalle Orchestrine ai Night, dai grammofoni ai Juke Boxe, la direzione presa dal mondo della musica che all’epoca si chiamava “leggera”, è stata chiara: andare verso il banco di vendita. Ci viene in mente un esempio molto lontano: quello della regista napoletana Elvira Notari, che all’epoca del cinema muto prendeva le canzoni vincitrici di Piedigrotta e trasformava il testo in trama dei suoi film, musicati e cantati direttamente all’interno della sala cinematografica: la sceneggiata che diventa film, antesignano dei musicarelli degli anni Sessanta. E da Elvira si passerà appunto alla Radio, e poi alla Tv, e al Disco per l’estate, al Cantagiro, a Canzonissima

Dal 1951 esiste poi la grande intuizione del Festival della Canzone italiana – eccoci finalmente! – nato per celebrare la melodia all’italiana (che poi tanto italiana non era) e il bel canto. E per celebrare anche le orchestre della Rai come quella di Cinico Angelini, favorire l’industria discografica italiana, e il mondo delle edizioni, ancor più di quello degli autori. “Papaveri e Papere”, il grande successo del Sanremo 1952, verrà tradotto in varie lingue, pubblicato in spartiti e 78 giri, usato nelle réclame, e farà un successo di vendita pazzesco per l’epoca.

 Il primo festival di Sanremo del 1951 vinto da Nilla Pizzi

Sanremo in effetti, e a ben guardare, continua a fare più o meno la stessa cosa. Solo in un periodo, gli anni Settanta, ha avuto un declino. E sarebbe interessante affrontare la storia di quegli anni, che spiegano anche il perché un certo tipo di cantautori non abbia mai partecipato. Ma è davvero l’argomento di un altro articolo. Così come non si possono qui affrontare le problematiche drammatiche dell’attuale industria discografica italiana, le cosiddette major che vanno a caccia di artisti con le visualizzazioni altissime su YouTube e che fanno nascere e bruciano in pochissimo tempo nuovi talenti, per scongiurare con l’affanno la loro crisi cronica. Ci sarebbe moltissimo da dire su questo, sugli ultimi Sanremo in particolare, sempre più attenti, non tanto al gusto dei giovani, quanto ai loro consumi.
Una delle questioni sollevate da Ferraro è proprio la mitizzazione e la rincorsa verso i giovani, al punto che non sembra più possibile giudicare una canzone e la sua qualità, senza passare per vecchi tromboni attaccati a un passato morto e sepolto.
Ma anche qui, a mio parere, si confondono i piani.

Di certo Sanremo è un tritatutto che può anche fare molto male, bruciare carriere, così come sa crearle dal nulla. Il grande autore, musicista e produttore Gian Franco Reverberi, da poco scomparso, mi disse in un’intervista radiofonica come fosse durissimo quel palco e come lui e Nicola di Bari si stessero giocando tutto in un Sanremo di tanti anni fa e questo, prima dell’esibizione, li aveva costretti a corse rapide al bagno in continuazione, prima l’uno e poi l’altro. Grande amico di Luigi Tenco, me lo ha raccontato per spiegarmi quanto quest’ultimo fosse inadatto a quel palco. Ma dire che a Sanremo non passasse la qualità anche ai tempi di Luigi Tenco sarebbe un errore storico madornale. A Sanremo la qualità c’è sempre stata. Così come spesso non ha vinto il migliore, così come spesso non ha vinto il più popolare, così come è vero che è riuscito a stritolare molti artisti. Chi non ha avuto a cuore, quest’anno, il dolore di Sangiovanni che ha deciso di ritirarsi dopo il flop e le tensioni dell’ultimo Sanremo? Seguito subito dopo da Mr. Rain che ha annunciato che farà l’ultimo disco? La differenza tra loro e Tenco è solo nella cosiddetta qualità. Tenco veniva da tanta gavetta, aveva tirato fuori canzoni straordinarie, aveva fatto televisione. Eppure è rimasto stritolato negli ingranaggi. Figuriamoci dei ragazzini a cui è stato fatto credere che l’arte e la felicità, il successo, il riconoscimento, passa solo in mezzo a talent con una telecamera che ti segue fino in bagno o in un rullo compressore come Sanremo, dove si portano prodotti standardizzati e studiati a tavolino per avere successo. Che magari non hanno perché arriva il nuovo e tu sei già da buttare. Sanremo è sempre stato il regno di tutto questo. Con modalità diverse, certo. Prima veniva lasciato spazio a un sano artigianato, alla produzione musicale intelligente, alle sperimentazioni. Ma è sempre comunque stato il regno della canzone di consumo; anche la Canzone d’Autore che all’interno ha vissuto, prosperato – addirittura ha per la prima volta spalancato le braccia al cielo vincendo – era lì perché anelava a essere comprata e venduta.
A voler essere popolare se preferite. Un cantautore peraltro sogna di poter vivere con dignità – se non arricchirsi – col frutto del proprio lavoro. Come un qualsiasi altro artista. A qualcuno è mai venuto in mente che i lavori di Michelangelo o Caravaggio o Bernini o Borromini abbiano meno valore perché commissionati da Papi, duchi e Re?

 Il festival di Sanremo del 2024 vinto da Angelina Mango

E allora cos’è questa Canzone d’Autore? È semplicemente una forma d’arte; un giorno miracoloso qualcuno si è reso conto che questa canzone di consumo, questo avvicinare musica e parole poteva assolvere anche all’esigenza interiore di esprimere se stessi e la propria visione del mondo. Nello stesso modo in cui viene fatto con i romanzi, la poesia, il cinema, la pittura, eccetera. Esiste una differenza tra questo e il realizzare un prodotto destinato al mero consumo, del tutto rispettabile, che assolve unicamente a questa esigenza e che può essere un prodotto artigianale, come una bella giacca da un sarto, oppure industriale ma con una stoffa di qualità o per un brand che sia una garanzia; oppure dozzinale e da grandi magazzini.
Lo stesso Ferraro, facendo riferimento ai Cantacronache e poi a Umberto Eco che in Apocalittici e Integrati parla proprio di questa “canzone diversa”, spiega il passaggio storico italiano (in altri luoghi del mondo era già stato fatto), in cui questa differenza, questa possibilità data allo strumento “canzone”, veniva realizzato e soprattutto verbalizzato (personalmente ne ho anche scritto sulla rivista settimanale online Blogfoolk). E deve anche essere chiaro che in interviste cartacee, radiofoniche e televisive, i cantautori protagonisti della prima e della seconda stagione “riconosciute” di questa nuova avventura detta Canzone d’Autore, si mostravano tutti assolutamente consapevoli di appartenere a questa realtà, che ribadivano in molte forme e con molte parole. In una intervista radiofonica Paolo Conte, per esempio, citatissimo da Ferraro, parla direttamente di “Stile” riferendosi della Canzone. Ed è un’intervista che lo vede a fianco di Amilcare Rambaldi, a Sanremo, in un servizio dedicato alla Rassegna della Canzone d’Autore del Club Tenco.

Paolo Conte e Amilcare Rambaldi

In questo senso parlare di Canzone d’Autore finita, o che non ha più spazio, o legarla a un certo ambito musicale (rappresentato dal cantautore con barba e chitarra possibilmente vagamente scordata) è parte di un’iconografia che spesso viene usata in maniera furbastra o ignorante. Farebbe anche ridere se non fosse grave.
In realtà, tanto per fare un esempio, quando Mahmood scrive “Soldi”, che parla della sua infanzia e di un padre che se ne è andato via, e con questa canzone vince il Festival, ebbene Mahmood sta facendo Canzone d’Autore. A parte il fatto irrilevante che a me Mahmood piace, anche in caso non piacesse o non vi si riconoscesse qualità e bellezza, Canzone d’Autore non significa canzone bella. Ho personalmente ascoltato sacche di Canzoni d’Autore decisamente brutte.
Quel che intendo semplicemente dire è che quale che sia il genere musicale, la Canzone d’Autore come forma d’arte non può morire: lo ha affermato a più riprese anche Roberto Vecchioni che ha scritto la definizione di Canzone d’Autore sulla Treccani e un ottimo volume (“Canzoni”) che raccoglie le sue lezioni universitarie a cura di Massimo Germini e Paolo Jachia. E ci sono tantissimi che la fanno e la praticano tutti i giorni. Un altro nome molto noto? Madame, ad esempio, di cui ci siamo lungamente occupati su Pane e Scorpioni e che recentemente ha vinto anche delle Targhe Tenco

È però chiaro che esiste tutto un mondo che non ha lo spazio di Mahmood o di Madame, non ha una casa discografica e un apparato intorno che studia le sue mosse e gli assicura riscontri e successi.
Esiste un mondo indipendente fatto di giovanissimi, giovani e differentemente giovani che questo spazio non ce l’ha e non ce l’ha mai avuto. Proprio per il discorso che facevamo prima: perché la Canzone d’Autore fa parte del mondo pop e se non garantisce il consumo, o quantomeno non c’è nessuno disposto a investire perché lo garantisca (certe melodie, per esempio, avrebbero grandissimo successo con gli spazi adeguati: non è vero che nelle Radio non ci sia spazio per più di un genere musicale; basta ascoltare una qualsiasi playlist. Solo che sentiamo Giorgia, Laura Pausini o chi per loro, e non – dico due nomi d’eccellenza tra gli altri – Pilar o Francesca Incudine, perché non hanno quel mondo discografico alle spalle che le sostiene), allora non le verrà dato lo spazio adeguato.
Ed ecco quindi che vengo ai discorsi di Ferraro e di Satta. Ad Andrea vorrei semplicemente dire – in realtà glielo ho già detto a voce – che per parafrasare Luigi Tenco, a Sanremo “non devi chiedere quello che non può dare”. Sanremo è il Carnevale, il grande Circo, una festa laica, una gara a colpi di look e battute, un modo per stare insieme, ridere e giocare. Lamentarsi. Annoiarsi. Scandalizzarsi. Ci si può di certo interrogare sul fenomeno sociale e perché sia diventato un fatto necessario, perché ogni altra problematica anche politica si tace in quei giorni. C’è andato anche Mattarella, come alla tradizionale Prima della Scala. E non è casuale: l’Opera è stata a lungo, almeno per un secolo, lo spettacolo popolare per eccellenza. Ora abbiamo il Festival.
Ma Sanremo da una parte fa questo e dall’altra assolve al suo solito scopo: vendere e occupare gli spazi assegnati alla musica. Le Radio sempre, una volta le Tv, ora le playlistdelle piattaforme come Spotify o Apple Music. I giovani che partecipano a Sanremo hanno poi date sold out fino all’autunno prossimo, in teatri dove una volta vedevamo i Rem o David Bowie.

Il problema vero – e lo dice consapevolmente anche Satta - è la mancanza di altri spazi per altra musica. Il problema vero è che anche i pochi altri spazi di grande popolarità e visibilità, ormai sono occupati dagli artisti di Sanremo e da quelle major (c’è poi tutto un discorso addirittura su quali major prevalgano e quali scuderie in certi momenti, ma anche questo è un altro articolo). Penso al Primo Maggio, per esempio, che malgrado i Sindacati, ha perso l’anima iniziale ed è diventato l’ennesima vetrina per cantanti trap, smacchiati e ripuliti, perché per apparire in certi contesti è necessario perdere un po’ di anima cattiva. Quell’anima perfida, spesso volgare e violenta. Ma che era vera e non edulcorata dal passaggio in TV. Come risolvere questo problema non può essere tema di questo articolo.

Però lo è il ruolo che in questa situazione dovrebbe avere il Club Tenco e la Rassegna della Canzone d’Autore.
Partiamo dai giovani sul cui mito non giura nel suo articolo Ferraro. I giovani al Club Tenco ci sono sempre stati. Anzi, sono stati sempre il fiore all’occhiello della Rassegna. Su questo dissento da Ferraro e dalla sua ricostruzione. Faccio tre esempi: il primo, citato dallo stesso Ferraro che ne parla come di un artista già noto, Paolo Conte. È vero che era già l’autore di “Azzurro” e aveva già inciso due dischi (ma chi l’ha detto che un giovane al Club Tenco deve essere uno alle prime armi senza aver già cose al suo attivo?) ma come cantautore non era affatto noto quando arrivò nel 1976 a Sanremo e su un palco come l’Ariston non aveva mai suonato. Al punto che il presentatore Antonio Silva lo chiamò “Piero”. Conte deve moltissimo al Tenco e ai contatti e al successo avuto lì per la sua felicissima carriera. La storia di quei suoi giorni è stata raccontata a me e alla collega Daniela Esposito da uno dei primi soci, recentemente scomparso, Gastone Lombardi, ma anche da Enrico de Angelise, a me personalmente, dallo stesso Sergio Staino e tutti concordavano su questo punto. E poi il secondo esempio: il primo a salire sul palco della Rassegna è stato Ivan Graziani. Aveva 34 anni, due o tre album all’attivo, l’ultimo dei quali di cover e strumentale ed era quasi sconosciuto. Infine il grande Gianni Siviero, che era davvero un pupillo di Amilcare Rambaldi e che proprio grazie al lavoro pubblicato da SquiLibri che lo omaggia, ha avuto in questi anni il riconoscimento che merita. In tutti gli anni di Rambaldi e anche in quelli successivi con responsabilità artistica affidata a de Angelis, i giovani ci sono sempre stati alla Rassegna. I giovani intesi come proposte nuove. Diodato o Giovanni Truppi, per fare due nomi noti e contemporanei, sono arrivati prima al Tenco che a Sanremo. Come accadde a Sergio Cammariere. Al Tenco poi ci sono sempre stati rappresentati i nuovi generi musicali: il rap è arrivato a Sanremo con il Club Tenco e non col Festival, che se ne è accorto molto dopo.
Sulla questione Targhe Tenco non posso entrare in un articolo fin troppo lungo anche se d’approfondimento. Mi limito a ricordare che se da una parte alle Targhe sono sempre stati premiati anche i nomi famosi (quindi è una leggenda metropolitana che prima fosse diverso) è però vero che molti nuovi innesti in giuria non corrispondono bene al mondo della Canzone d’Autore e questo fa sì che al secondo voto (Le Targhe Tenco si votano a doppio turno), nelle cinquine, finiscano per votare solo i nomi che conoscono. Non va bene. Un consiglio che mi sento di dare è per esempio impedire il secondo voto a chi non ha votato al primo turno.

Ma anche qui: la nuova gestione artistica del Tenco è questo che vuole? Quando me ne sono andata via – ero socia e non lo sono più, ero in giuria delle Targhe e mi sono cancellata (è giusto per correttezza che questo si sappia) – mi ricordo che si parlava di riempire l’Ariston come scopo importante del Club. Magari non l’unico. Ma era una priorità.
Voglio dire a Domenico Ferraro, che ha cominciato a frequentare il Club successivamente agli avvenimenti che a cavallo tra il 2016 e il 2017 hanno portato a una spaccatura all’interno del Club, con l’uscita in particolare di Enrico de Angelis (l’inventore del termine Canzone d’Autore nel 1969, giornalista musicale e collaboratore di Amilcare dal 1972, quindi dalla fondazione del Club), che non si è mai trattato, come forse gli è parso di capire, di affrontare il cambiamento epocale che ha escluso il nuovo mondo dei cantautori italiani (che è molto numeroso, anche troppo), assumendo “una posizione più dimessa, a tutela di un bene minacciato all’interno di un ambiente protetto e al riparo da parametri quantitativi” , mentre dall’altra parte “c’era la volontà di giocarsela in mare aperto, accettando di misurarsi anche con i numeri, per rivendicare comunque il diritto ad esistere del Club e della sua Rassegna in un panorama completamente diverso rispetto al passato”. Non è mai stato questo il problema.
Il Tenco è nato per fornire una casa ai Cantautori. Tutti. Ricchi e famosi, poveri e misconosciuti. Che fossero melodici, rocker, stonati, rapper, trapper. Tutti. Perché in quella Casa non dovevano entrare in competizione tra loro o con chi l’ascoltava. Ma dovevano trovare un salotto dove confrontarsi, conoscersi, condividere, scambiare, farsi ascoltare, mettersi alla prova, tra loro e col mondo degli addetti ai lavori e insieme con altre forme d’arte (come l’illustrazione, ad esempio).
Il Tenco non ha mai aspirato ad essere vetrina commerciale. Altrimenti quando questi cantautori avevano grandissimo successo, anche Radio e Tv avrebbero dato più spazio alla Rassegna. Il che non sarebbe tuttora un male: perché Musicultura sì e il Tenco no, per esempio? Perché sempre di notte, di nascosto, come ci fosse qualcosa di male, per passare in TV? Ma ad ogni modo non è mai stato quello lo scopo.
Lo scopo – che spero riesca il Tenco a non perdere – è sempre stato quello di creare quelle connessioni, quell’unione di cui parlavo all’inizio, quelle che amava Sergio Staino, quelle che mettevano insieme Guccini e Andrea Pazienza e il giornalista Rai Vincenzo Mollica, non per restare al calduccio in casa a guardarsi negli occhi, ma per trovare ispirazioni, elementi, contatti, possibilità e poi spiccare il volo.

Dire che questo non sia più possibile e rincorrere il sold out all’Ariston portando dei nomi che attirano qualche giornalista svogliato mandato solo per quello, sarebbe la vera sconfitta del Club. Che a mio avviso invece dovrebbe lavorare per il recupero e la ristrutturazione di quella casa, di quel giardino.
Che poi questa situazione ambigua dipenda anche dal disaccordo e dal disamore reciproco di uomini che si conoscono da cinquanta anni e sono stati amici fraterni e compagni di merende e ora non si parlano più, beh, è doloroso, ma nessuno la può risolvere, tranne i protagonisti.
Chi ha gli strumenti invece intervenga affinché la musica d’Autore, con gli aggettivi annessi alla bellezza, alla modernità, all’intelligenza e alla cultura, possa tornare a prosperare ovunque e continui (o ritrovi) la sua Casa.

Anche se è maledettamente fuori mano (… e al confine con la Francia).

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