Fisarmoniche, mamme, bici e canzoni

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Fisarmoniche, mamme, bici e canzoni

| Elisabetta Malantrucco

Il mito della specializzazione ha segnato la cultura e le scelte di questi ultimi anni nel nostro mondo occidentale. È però un fatto che in tempo di grave crisi, come quello in cui stiamo drammaticamente vivendo, le idee universali possono salvare il mondo. Esistono di sicuro ancora figure “rinascimentali”, che hanno vocazione generalista e visionaria e che, soprattutto, la sanno comunicare coinvolgendo gli altri. Una di queste figure è senza dubbio il romano Andrea Satta, medico pediatra di base, cantautore, scrittore, attore, operatore culturale; uno che cento ne pensa e mille ne fa. Perché ha in dote, oltre a tutto il resto, il saper raccontare e convincere chiunque abbia di fronte - dalla mamma nigeriana che porta il suo bambino in ambulatorio, al grande intellettuale nelle terrazze della Sinistra storica capitolina - che l’idea che ha avuto è geniale, che si può fare, che si può realizzare. Anche se sulla carta sembra una vera follia. Ecco: Andrea convince gli scettici e quella cosa alla fine la fa.

E così l’arte su strada diventa un mitico Festival - con mongolfiere, tavolate di pasta asciutta lunghe un intero corso di paese, saltimbanchi e grandi musicisti, chiromanti e prestigiatori di fama – che si chiama Stradarolo e si tiene a settembre in quel di Zagarolo, paese della provincia romana. E così il suo amore per la bici, per il Giro d’Italia, per Bertoglio e Pantani, diventa un Palco a Pedali, alimentato da 100 biciclette e amato anche dai ragazzi di Greta Thunberg; e così, mentre si protesta perché l’Italia non può accogliere immigrati, lui mette le mamme - provenienti da tutto il mondo - nel suo ambulatorio a raccontarsi favole, e alla fine le porta in giro per l’Italia, le mette perfino dentro un libro della Treccani che si chiama “Mamma, quante storie”.

Andrea Satta

Andrea Satta
Foto di Agnese Ermacora

Sono solo esempi, tra i mille che si potrebbero fare, per raccontare un personaggio carismatico, che ti convince delle sue idee preparandoti una zuppa da consumare sul suo terrazzo o magari i suoi supplì al telefono, o mentre canta Léo Ferré sul palco col suo gruppo storico di grandi musicisti e amici Têtes de Bois, o mentre racconta la storia di suo padre, Gavino, protagonista del libro “La fisarmonica verde”, edito da Mondadori. È una storia soprattutto di guerra, con alcuni passaggi pieni di umanità e altri di denuncia delle peggiori atrocità che l’ultimo conflitto mondiale ha saputo produrre. Ce lo siamo fatti raccontare proprio su quel terrazzo, tra i compiti di sua figlia Gea, l’entusiasmo della “cana” Emma, le videochiamate dall’università del figlio Lao e i servizi del Giornale Radio di Timisoara, sua compagna di vita. La fisarmonica, lo diciamo prima, è quella che Gavino riportò a casa dopo essere stato internato in un campo di concentramento tedesco.

L’uscita di questo libro rappresenta solo l’ultimo passaggio di una vicenda lunga e complessa: potremmo dire un “work in progress”. Ti va di spiegare come è andata e quando soprattutto hai compreso che la storia di tuo padre poteva e doveva essere raccontata?
Io ho sempre pensato che la vita di mio padre fosse un romanzo, anche quando ero solo un ragazzino, ma non pensavo certo di scriverlo io. Ero però davvero convinto che di questa sua vita valesse la pena narrare molti passaggi che avevano qualcosa di magico, anche per il modo che aveva lui di raccontarli. Il problema è che quando scrivi non devi perderti i dettagli, altrimenti ti innamori dell’estetica, della lirica, della suggestione… e finisci per perderti i passaggi che rendono indimenticabile e imperdibile quello che stai raccontando. Quindi per spiegarti come è andata posso dirti che tutto è cominciato dall’osservazione pura, quando mio padre è morto. Ho preso la bicicletta, sono andato nella sua terra in Sardegna, nel suo paese, a Luogosanto in Gallura.

E dopo hai cominciato a scrivere?
Sì, ho cominciato allora, però sentivo che mi mancava qualcosa di importante. Fino a che un giorno, tornando a casa di mia madre, l’ho trovata intenta a rovistare tra le carte di papà. Era lì, in quella casa di campagna dove viveva ormai sola, a guardare fotografie. E quel giorno ho messo le mani tra i libri di mio padre. Ce ne erano due a cui lui teneva moltissimo. Uno era “Se questo è un uomo” di Primo Levi, che avevo letto, e un altro che invece non avevo letto; era “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi: ho preso in mano questo libro e l’ho sollevato per il dorso, senza neanche aprirlo, e da dentro è caduto un foglio. Era una vecchia lettera che denunciava un eccidio, un fatto storico oggettivo di sangue. Parlava di 40 persone bruciate vive in una baracca, nel campo di Concentramento di Lengenfeld, in Germania. Il campo dove era stato portato come prigioniero dopo l’armistizio: mio padre aveva fatto la guerra in Grecia. E quelli bruciati vivi erano stati i suoi compagni di baracca per due anni; lui si era salvato solo perché quel giorno con altri era di turno per la raccolta delle patate. Quella lettera era la denuncia firmata da mio padre e da altri suoi compagni al comando militare di Dresda, dove avevano consegnato il Fuhrer del Campo Josef Hartman, rintracciato fortunosamente alla fine della guerra mentre cercavano di tornare a casa. Quella lettera dimostrava un grande coraggio e anche un grande senso civico da parte di mio padre: avrebbe potuto farsi giustizia da sé dopo aver assistito a tanto orrore ma preferì consegnare l’assassino, affinché subisse un regolare processo.

Avevi quindi trovato la cosa importante che ti serviva per raccontare la vita di tuo padre…
Certo: questo gesto di mio padre, questo fatto storico, questo eccidio che nessuno conosce, è stato lo scatto che mi serviva. Eppure ancora non bastava: dovevo fare qualcosa che restituisse a mio padre la memoria che fisicamente non potevo più dargli. Così, erano i giorni di Natale e ero con mio figlio Lao – all’epoca aveva 12 anni – e siamo andati a Lengenfeld a cercare il campo, a cercare il luogo del martirio. Questo viaggio è stato per me veramente il senso della compiutezza: dovevo poter vedere quello che avevo immaginato, dovevo sapere per davvero com’era lì l’alba, come il tramonto, com’era il cielo, com’erano le nuvole e come il prato. Com’erano le case, gli sguardi, le compagnie e le solitudini. Sai come funziona: quando resti a lungo in un posto familiarizzi con gli spigoli dei palazzi, con quell’albero sempre uguale, con i fili del tram, con i rumori della stazione. Anche lui avrà familiarizzato con i paesaggi di quel luogo. Questo mi ha dato il senso definitivo e ho capito che quel gesto di raccontare andava davvero fatto.

Mi hai detto tempo fa che del Campo non ci sono più segni visibili: la memoria è stata cancellata dai superstiti.
Sì, difatti è andata così, perché è stato un coltello con due lame: quando sono stato lì mi sono reso conto che - proprio nel momento in cui raggiungevo l’obiettivo, mentre cercavo il bibliotecario al Comune e qualcuno che ci accompagnasse sui luoghi - la realtà è divenuta più grande di me; mi sono guardato intorno e mi sono reso conto che di tutto quello che aveva raccontato mio padre di quel luogo - e di tutta la fantasia che aveva popolato la mia testa - non c’era praticamente più niente.

Lui comunque del Campo qualcosa quindi ti aveva raccontato.
Sì, certo, aveva raccontato tante cose e io le sapevo, ma quella vicenda no. Di quella deve aver avuto pudore. E poi mi sono chiesto quante altre cose ha visto e subìto in quei giorni e non me lo ha voluto dire. Dell’eccidio io ho saputo solo perché l’ho scoperto. Mio papà mi diceva: “Io non posso dirti quello che ho visto, non posso dirti fino a che punto arriva la bestialità dell’uomo. E non te lo voglio dire, perché tu sei un ragazzo e devi vivere felice, devi avere la luce negli occhi.”

Nel volume però quella dell’eccidio non è l’unica storia narrata. Ce ne sono di alcune che hanno ben altra luce. Ce n’è una in particolare che ti vorrei chiedere di raccontare: quella del partigiano greco che doveva andare dalla mamma malata. Vorrei che la raccontassi perché è l’altra faccia della guerra, non credi?
Sì, è l’altra faccia: a leggerla oggi è una storia bella. Mio padre stava comunque dalla parte sbagliata e questa non è una storia politicamente corretta come potrebbe piacere a noi. Gavino era un ragazzo partito soldato ad occupare la Grecia. 

Beh, ma era un soldato italiano e ha fatto quello che era in obbligo di fare. Non aveva alternative.
Beh, ci sono stati anche quelli come Sandro Pertini…

È vero, ma non è che necessariamente nella vita si debba essere eroi. Tuo padre era un ragazzo italiano partito per la guerra come tantissimi altri, che sono tornati feriti, anche nell’anima, e per sempre. Per non parlare di tutti quelli che non sono mai tornati.
Lo so, resta che lui si è trovato in Grecia a combattere come forza occupante, contro i partigiani greci che giustamente stavano lì a cercare di difendere la loro terra. E comunque alla fine erano un gruppo di soldati male equipaggiato, che presidiava una parte di terra vicino a un bosco dove appunto si nascondevano e muovevano i partigiani. Per un motivo che non ho mai capito bene, papà era a capo di questo drappello, era il loro referente. Credo dipendesse dall’età. Ad ogni modo questo paese si chiamava Sofikon, in Morea, sul Canale di Corinto.  Un giorno arrivò un ragazzo greco molto giovane e mal vestito a chiedere udienza a mio padre. Il ragazzo gli raccontò che il suo capo, Mavros Issakidis, aveva la mamma morente e che quella notte sarebbe andato a salutarla per sempre, attraversando le terre occupate dagli italiani. E disse che anche senza consenso sarebbe andato.

Poteva anche essere un trabocchetto…
Poteva essere un agguato, anche perché non è che il giudice dell’etica funziona molto bene in situazioni di guerra. Eppure papà disse di sì e che lo avrebbe accompagnato lui stesso: lo avrebbe aspettato dopo due ore, solo e disarmato. E malgrado la paura così fece. Mavros arrivò anche lui disarmato e senza dirsi una parola si incamminarono per il bosco e arrivarono sotto la casa della mamma del partigiano. MI ricordo perfettamente quando mio padre mi fece questo racconto. Eravamo davanti alla stufa a via Casilina. È un bellissimo ricordo quello. Avrò avuto nove anni e lui narrava con grandi pause e grandi gesti e io lo sollecitavo a continuare: “E allora papà? E allora papà?”. Mavros salì in casa e mio padre lo aspettò. C’era una luce accesa e quando tornò indietro, quella luce c’era ancora. Ripresero la strada del ritorno sempre in silenzio e giunti al momento di salutarsi Mavros si girò verso mio padre e gli diede la mano. Era quasi l’alba. Si sono stretti la mano due che il giorno dopo si sarebbero potuti ammazzare. E forse non è accaduto solo perché poco dopo è stato l’8 settembre e mio padre è stato portato via a Lengenfeld. Chissà se Mavros si sarà mai chiesto che fine avesse fatto quel soldato che lo aveva aiutato. Mio padre fece in tempo a sapere, il giorno dopo della visita, della morte della mamma di Mavros.

Questa è una delle storie raccontate nel libro e prima ancora nella pièce teatrale omonima che hai realizzato con l’attore e regista lucano Ulderico Pesce.
Con Ulderico abbiamo trasformato le pagine che avevo scritto fino a quel momento in uno spettacolo, perché mi sembrava molto bella l’idea di raccontare questa storia a tutti ma soprattutto ai ragazzi, alle scuole, cosa che sto ancora facendo. E sai una cosa? adesso che c’è la guerra nessuno più mi chiede perché racconto una storia così vecchia e lontana. Non sai quante volte è successo che mi abbiano chiesto come mai ero andato così indietro trascurando l’attualità. Ora non me lo chiede più nessuno! Adesso la risposta è arrivata da sola: non avremmo dovuto dimenticare quella storia, ma evidentemente ce la siamo dimenticata: se abbiamo permesso che scoppiasse una guerra in piena Europa allora vuol dire che non c’è bastato quello che è successo, perché purtroppo la tragedia della guerra prescinde dai torti e dalle ragioni e travolge gli innocenti. Questo era il valore forte che mio padre si era portato dalla guerra, un valore che per molti anni è rimasto indiscutibile, ma forse, col passare del tempo e delle generazioni testimoni di quell’orrore, si è cominciato a pensare che ragioni e punti di vista si potessero sollevare dall’acqua orrenda e putrida della guerra. E invece non è così: lo vediamo adesso che muoiono i bambini, che muoiono le persone con la spesa in mano, che muoiono dei ragazzi che potevano avere una vita felice. E fa impressione che la gente, da qualunque parte, in una guerra è capace di efferatezze terribili. Quindi è chiaro che scatta un meccanismo per cui le cose si dimenticano, gli odi si rincorrono e alla fine tutto diventa senza testa. Sarà un orrore che non avrà più né principio né fine.

A me quello che più impressiona non è la guerra che fa il suo “mestiere”: orrore, morte, tortura, stupri, saccheggi, ma è il desiderio famelico di guerra, che manipola le menti e ogni volta fa dimenticare tutto ciò che è già accaduto. Mi spaventa moltissimo.
Eppure il patto che era uscito dall’orrore della Seconda Guerra Mondiale era che almeno in Europa – e con tutte le ipocrisie del caso, perché le guerre in cento altre parti del mondo avvenivano lo stesso - la lezione era giunta chiarissima e rimaneva ferma nelle nostre menti e nei nostri cuori. Non è più così: c’è una specie di decadimento cerebrale e la memoria si è allentata. La verità è che la guerra è un suicidio collettivo, per cui, se stai facendo una guerra, sappi che ti stai suicidando. Poi tu mi puoi rispondere: “Io ho diritto suicidarmi”; va bene, però abbi ben chiaro ciò che stai facendo, perché un suicidio è senza ritorno.  E dopo che avrai visto le madri piangere e i figli morire non dovrai dire: “Abbiamo vinto,” ma dovrai andare dalla madre, dal padre dal figlio, a dire: “Tuo figlio è morto, tuo padre è morto, tua madre è morta e forse non hanno nemmeno capito perché”. Questo è ciò che mi viene dalla storia di papà e ho cominciato a raccontarla quando forse sembrava anacronistico parlarne. Eppure, se ci pensi, di quella Guerra se ne è parlato tanto, con libri, film, documenti, ma è incredibile come i fatti dimostrino che non se ne è parlato abbastanza e che Il tempo ha logorato anche la stoffa più robusta. Alla fine, anche il materiale più incorruttibile ha ceduto al tempo.

Ma per tornare a te, Andrea, mi sembra che a modo tuo, le tue iniziative di artista e operatore culturale siano sempre in direzione “ostinata e contraria” a quello che abbiamo denunciato fino ad ora. Penso per esempio all’iniziativa delle “Mamme narranti”, nata nell’ambito del tuo lavoro di Pediatra di Base a Valmontone, paese alla periferia di Roma. Ce lo vuoi raccontare?
In questo momento l’iniziativa delle “Mamme Narranti” in ambulatorio è sospesa a causa della pandemia: non posso certo mettere venti, trenta signore più prole tutte insieme. Però non ci abbiamo rinunciato del tutto. Per esempio nel 2020, in occasione dell’anniversario di Gianni Rodari, abbiamo ripreso le sue Favole al telefono e le abbiamo fatte al “telefonino”: in pieno lockdown infatti ogni sera una mamma diversa, e qualche amico artista e giornalista, hanno raccontato la loro fiaba in un video da smartphone. Sono le fiabe che ascoltavano da bambini per addormentarsi e questa idea è nata qualche anno fa proprio così e abbastanza per caso. Una mamma del Marocco una volta venne in laboratorio e mi raccontò, in lacrime, della sua totale solitudine, di non riuscire a farsi nemmeno un’amica. Non sapeva con chi parlare; il suo bambino aveva anche dei problemi, che per fortuna poi si sono risolti. Immaginati: sei in una terra straniera, non parli benissimo la lingua, non hai un’amica nuova, non sai neanche che senso abbia essere lì, mentre la televisione parla di un mondo a cui tu non accedi; e allora io ho pensato che la domanda che le andava posta non doveva essere pietosa: “Come hai fatto arrivare in Italia? quanto soffri?”, perché forse anche lei non ne poteva più, sia di sentirsi porre la domanda, sia di farsi un interiore esame su questo. Ho invece pensato che la domanda doveva essere intima e valida per tutti, anche per noi che non viviamo la condizione di immigrato. E così, invece di chiedere dell’oggi, le ho chiesto del passato, dell’infanzia: “ma tu come ti addormentavi da bambina?” Se ci pensi è una domanda che in realtà chiede di essere coinvolto nella vita dell’altro. “Come ti addormentavi? Di che colore erano le coperte del letto? Come erano gli abiti della nonna? Portami in viaggio nella tua infanzia, in un tempo diverso da quello di adesso, per viverlo insieme. Se vengo con te dove tu sei stata felice allora io non devo restare qui dove stai soffrendo. Invece sarò nel luogo dove tu mi vuoi portare, a cui mi affezionerò, nel tuo mondo di cui mi potrò innamorare, in una terza dimensione dove io non sono più quello che può avere cose che tu non puoi avere, dove non dovrò più usare il linguaggio della pietà e del soccorso, dove ci muoveremo nell’ambito dell’interesse reciproco.  Così aiutarsi è più facile e più duraturo, perché oramai siamo amici e se siamo amici come faccio a non aiutarti?” Di più: questa cosa è fatta da me, in ambulatorio, ma il rapporto nasce tra loro: non solo tra i bambini perché per loro è facile, ma tra le mamme stesse, che arrivano da più parti del mondo. In poche parole, una volta al mese ho cominciato a chiamare queste mamme e ognuna raccontava una favola dell’infanzia ai bambini e alle altre donne; tutte portavano dolci, passavano un pomeriggio insieme, si conoscevano, diventavano amiche, scambiandosi intimità, confrontando le similitudini e le differenze. 

Però anche questa esperienza è diventata arte, è diventata spettacolo, incontri, libri, un documentario…
Si, certo, perché i libri, gli spettacoli, i documentari possono arrivare dove tu non puoi arrivare. Nelle esperienze quello che conta è che siano trasferibili: non potevo mica far venire tutte le mamme in ambulatorio! Ho pensato che magari a qualcuno poteva venire in mente di fare la stessa cosa: Io so che ci sono dei pediatri che fanno cose molto simili. Magari qualcuno ha cominciato prima di me, magari in un altro modo. Non pretendo di avere inventato niente! Di certo l’argomento “fiaba” ha un potere evocativo straordinario, perché pesca non solo nelle radici tue, ma anche nelle radici di un popolo. E poi a volte si fanno scoperte interessanti: è bello trovare a 3000 km distanza qualcosa che appartiene anche alla tua cultura, è bello domandarsi perché l’indovinello della capra del cavolo e dell’uomo e del lupo diventi in Nigeria l’indovinello del pescatore che deve andare con la zattera da una parte all’altra del fiume con la gazzella, il leone e il casco di banane.  Ma come è possibile? io poi l’indovinello non lo so risolvere comunque! Insomma, la trama è la stessa, la necessità di risolvere l’indovinello è la stessa, la difficoltà è la stessa: cambiano solo gli animali, perché sono gli animali che ci sono lì! E allora uno si chiede: ma quale nave di schiavi, oppure quale condottiero sconosciuto, 500 o 200 anni fa ha fatto questo viaggio? E poi: sono nati prima la gazzella e il leone o il lupo e la capra?  

Consapevoli di non avere la risposta, dobbiamo per forza tornare a noi. Anzi a te: ti abbiamo visto fino ad ora scrittore, attore, operatore culturale, pediatra. Ma tu sei anche – soprattutto direi - un cantautore; tu scrivi, canti canzoni, sei il frontman di un gruppo gagliardissimo che si chiama Têtes de Bois e stai pure per uscire con un album da solo. Un album tutto tuo, vero?
I Têtes de Bois mi hanno dato una licenza premio. Quest’anno ricorrono anche i trent’anni del nostro gruppo e ci sono tante iniziative in ballo; cominciamo il 14 maggio con un concerto al Palazzo delle Esposizioni per la Notte dei Musei. Ed è il primo di tanti concerti che faremo per festeggiare la nostra storia musicale ma anche la nostra bella amicizia. Noi stiamo insieme da una vita e abbiamo condiviso cose belle e anche pagine difficili: siamo i fratelli che si sono scelti e ci confermiamo ogni anno che ci vogliamo bene. Però avevo bisogno di viaggiare da solo con delle mie canzoni, con dei testi molto personali E allora uscirà entro l’anno questo nuovo disco a cui lavoro da molto tempo e che ho fatto con gli arrangiamenti di Giorgio Maria Condemi, uno straordinario chitarrista. Ha dato all’album un bellissimo suono, una bellissima visione, istintiva, che mi piace molto: per quelle canzoni cercavo proprio quel suono e quindi ecco qua! Sì, sono tante cose, anche un cantautore, e a volte mi spiace di vivere tutte queste idee in un momento così brutto per tutti.

Di solito nei momenti di più grande crisi la creatività si accende.
Sì, è così, ma mi imbarazza perché è un momento in cui ho tante cose belle per le mani, che mi appassionano, e però poi mi guardo intorno e vedo l’orrore in cui ci troviamo. Siamo ancora in pandemia e siamo riusciti a infilarci dentro anche una guerra. Però io vado avanti con le mie iniziative. Penso per esempio anche al Palco a Pedali, che ha qualche anno ma che è un progetto ecologista, quindi davvero attuale. Il futuro passa attraverso la tutela dell’ambiente. Nessuno ovviamente pretende di alimentare le nostre cucine mandando i figli a pedalare in cantina, ma è questo l’esempio di come ragiono sempre: l’utopia è il segnaposto che allunga la vita ai sogni.  

La fisarmonica verde

 di Andrea Satta
Mondadori - 2022

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Elisabetta Malantrucco

Elisabetta Malantrucco

Romana, è ricercatrice, autrice, regista radiofonica e critico musicale

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