La strage continua - Omicidio Pecorelli

Referenze

La strage continua

| Giuseppe Di Matteo

A oltre quarant'anni dalla morte del giornalista, l'inchiesta sull’omicidio di Mino Pecorelli è stata riaperta grazie agli articoli di Raffaella Fanelli. Che torna in libreria con un libro esplosivo e una nuova pista.

Abbiamo imparato a chiamarli anni di Piombo, della Strategia della tensione, del Terrorismo rosso e nero, della Massoneria e dei Servizi segreti deviati, delle Stragi. A legare il lungo decennio 1969-80 è un sottile filo rosso. Mino Pecorelli, quel filo, lo aveva individuato. E, partendo dall'omicidio di Aldo Moro (1978), si muoveva come Arianna nel labirinto del Minotauro per arrivare alla verità. Stava per farlo, ma il 20 marzo del '79 venne ucciso da quattro colpi di pistola in via Orazio, a Roma, a due passi della redazione del periodico OP, da lui fondato. A più di quarant’anni di distanza non sono stati scoperti né i mandanti né gli esecutori materiali del delitto. Uno dei tanti cold case della storia italiana recente. Ma, come spiega Raffaella Fanelli ne La strage continua. La vera storia dell'omicidio di Mino Pecorelli, edito da Ponte alle Grazie (217 pag., 16 euro), sarebbe più corretto chiamare le cose con il loro nome: «omicidio irrisolto». E, verrebbe da aggiungere, messo nel dimenticatoio. Almeno fino al febbraio del 2019, quando, proprio grazie ai tanti articoli di Fanelli, l'inchiesta è stata riaperta. Il titolo del suo ultimo libro, non a caso, è un omaggio a Pecorelli e al suo stacanovismo investigativo. La strage continua, infatti, è l'ultimo fiato di una copertina abbozzata, ritrovata nell'auto del giornalista il giorno stesso in cui fu assassinato, e che, ovviamente, non fece in tempo a pubblicare. L'antefatto era un dossier esplosivo di 12 pagine che avrebbe scatenato un terremoto. Pecorelli «aveva recuperato la maggior parte dei documenti che cercava. Carte scottanti, sufficienti a far saltare piani di eversioni e colpi di Stato. A fermare quella strage continua culminata con le 85 vittime innocenti di Bologna. Avrebbe spezzato quel filo nero che dal maestro venerabile della P2 passava al cuore dello Stato e finiva agli estremisti di destra, col tramite degli agenti dei servizi reclutati per depistare le indagini». Come già ne La verità del Freddo (Chiarelettere), Fanelli scava con pazienza in un passato pieno di vuoti. Cerca uomini, tracce, verbali. Interroga documenti mille volte maneggiati e, da cronista di razza, ne scova di inediti. Nel caso Pecorelli ce n'è uno che potrebbe riscrivere la storia che finora conosciamo. 

Di quale documento si tratta?
Si tratta di un verbale del 1992 che ho ritrovato in una carpetta intestata al sequestro e all’omicidio dell’onorevole Aldo Moro. In calce porta le firme di Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo, e di Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Nelle sue dichiarazioni, Vinciguerra parla dell’omicidio di Mino Pecorelli e della pistola usata per uccidere il giornalista. Dice che l’arma era nelle mani di un avanguardista, tal Domenico Magnetta, la persona arrestata con Massimo Carminati il 20 aprile 1981 al valico del Gaggiolo mentre insieme cercavano di fuggire in Svizzera. Fu durante quello scontro a fuoco che Carminati perse l’occhio sinistro. Vinciguerra racconta al giudice Salvini di un ricatto che Magnetta avrebbe fatto ai vertici di avanguardia nazionale: pretendeva di essere scarcerato perché, evidentemente, conosceva le amicizie dei vertici di Avanguardia con una parte della magistratura, minacciando – se fosse venuto a mancare questo aiuto – di consegnare le armi del gruppo che aveva in deposito. Fra queste armi c’era la pistola che uccise Pecorelli. E ad informare Vinciguerra del ricatto, stando alle dichiarazioni riportate nel verbale, sarebbe stato proprio Adriano Tilgher, fondatore, insieme a Stefano delle Chiaie, di Avanguardia Nazionale. Vinciguerra e Tilgher, all’epoca dei fatti riportati, erano detenuti nella stessa cella, erano camerati. Amici. Erano stati arrestati insieme. Dopo aver trovato quel verbale ho incontrato, a Milano, il giudice Guido Salvini e nel carcere di Opera, dove è detenuto, Vincenzo Vinciguerra.

Ma Vinciguerra è ancora in carcere?
Sì. E per sua scelta. Mi spiego meglio. Vinciguerra è stato condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, una condanna che non ha mai appellato. Decise di confessare di essere l’autore della strage per evitare che sette giovani di Lotta Continua, arrestati e innocenti, scontassero una condanna che spettava ad altri. Vinciguerra ha sempre ritenuto lo Stato responsabile delle stragi che hanno devastato il nostro Paese e ha deciso di vincere la sua partita restando in cella, in sdegnato dissenso con Stefano Delle Chiaie, l’amico di un tempo scoperto a trafficare con uomini dei servizi segreti e a trescare con Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati che oggi è indicato dalla procura di Bologna come uno dei mandanti della strage del 2 agosto 1980.  Per questo Vinciguerra decide di raccontare quello che sa al giudice di Milano Guido Salvini. Non è un collaboratore di giustizia e non ha mai cercato sconti di pena. Mai benefici. E tutte le sue dichiarazioni sono state corroborate, negli anni, dalle indagini di Salvini e di altri magistrati.  
Dopo aver trovato le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, ho cercato traccia dell’arma tra interrogatori, sentenze e verbali di arresto che hanno riguardato Domenico Magnetta. E ho trovato una pistola 7.65 e quattro silenziatori artigianali sequestrati all’ex avanguardista nel 1995. Erano nascosti nel bagagliaio di un’auto furgonata parcheggiata a Cologno Monzese, in viale Toscana, nei pressi dell’abitazione della sorella di Magnetta. Con un’arma dello stesso calibro, munita di silenziatore, fu ucciso Mino Pecorelli.

È stata fatta una perizia sulla pistola sequestrata nel 1995 a Magnetta e i reperti del caso Pecorelli?
La perizia è stata fatta. Ma sulle foto. Perché la pistola sequestrata a Magnetta nel 1995 e conservata nell’ufficio reperti del tribunale di Monza risulta distrutta. Il verbale di distruzione non si trova e i periti hanno concluso dicendo che non si può escludere ma neanche confermare che la pistola sequestrata a Magnetta sia quella usata per uccidere il giornalista. Nel 1995, quando Magnetta è stato arrestato e la pistola sequestrata, era in corso a Perugia il processo Pecorelli con Giulio Andreotti e Massimo Carminati imputati, il primo con l’accusa di essere il mandante e l’altro con l’accusa di essere il killer del giornalista. Le stesse persone che hanno occultato il verbale del 27 marzo 1992 di Vincenzo Vinciguerra, le stesse persone che hanno preferito far dimenticare le sue dichiarazioni, le stesse persone che hanno deciso di non prenderle in considerazione portano addosso la responsabilità più grave: quella di non aver disposto una perizia su quella pistola e su quei silenziatori ritrovati da una giornalista.

A differenza di altri giornalisti-eroi, Pecorelli è stato infangato e dimenticato. Perché, a suo avviso?
Fu proprio il piduista Federico Umberto D’Amato ad accusare per primo il defunto Pecorelli di essere un ricattatore. Lo hanno detto Licio Gelli e Gian Adelio Maletti. Accusa che si è allargata, gonfiata, nutrita da falsi e facili aneddoti che il giornalista defunto non ha potuto smentire se non attraverso la sua eredità: un conto in banca vuoto e tanti debiti. Pecorelli era un giornalista libero che indicava, spesso con ironia, responsabilità chiare e riconoscibili. Sono stati i suoi stessi colleghi, alcuni almeno, a metterlo in ombra. Di recente lo ha fatto un vecchio giornalista in pensione, un nome che ho poi ritrovato in diversi articoli di Pecorelli, anche nel famoso “Il professore e la balaustra” pubblicato su Op il 20 febbraio del 79. Vendicarsi di un morto è facile. Meno facile quando c’è una sentenza che mette nero su bianco che Pecorelli non era un ricattatore ma un giornalista d’inchiesta. I giudici di Perugia non hanno trovato nessun colpevole ma a pagina 39 della sentenza emessa il 24 settembre 1999 hanno scritto che Pecorelli, le sue notizie, le pubblicava.  E i giornalisti della grande stampa attingevano a piene mani dal suo settimanale: Camilla Cederna nel suo celebre libro Giovanni Leone. La carriera di un presidente utilizzò, senza citarne mai la fonte, le notizie pubblicate da Pecorelli su Op, nella rubrica “La reggia di Montecaballo”, titolata così dal nome della strada antistante il Quirinale.  Anche il quotidiano La Repubblica riprese in toto l’inchiesta Italcasse.  

Che Italia è quella del decennio 1969-80?
Erano gli anni della strategia della tensione, dei tentativi di colpi di Stato, del terrorismo di destra e di sinistra. Prima c’è stata la cosiddetta “guerra dei generali”, anche all’interno del SID. Da una parte c’era Vito Miceli, a capo del servizio e vicino ad Aldo Moro, dall’altra Gian Adelio Maletti, responsabile dell’Ufficio “D” del Sid e ritenuto vicino a Giulio Andreotti.  Erano gli anni delle vecchie e nuove organizzazioni criminali come la banda della Magliana. Pecorelli raccontò su Op la strage di Piazza Fontana e il processo di Catanzaro e scrisse dell’omicidio di Aldo Moro, l’unico golpe riuscito nel nostro Paese.

I suoi articoli hanno contribuito alla riapertura delle indagini. Quanto manca per raggiungere la verità?
L’inchiesta è stata riaperta e le indagini sono in corso. Non so se e quando si raggiungerà una verità. So che i legali dell’Fnsi, la Federazione nazionale della stampa italiana, costituita parte offesa accanto ai familiari di Pecorelli, hanno presentato una memoria che ripercorre i miei articoli e poi il mio libro, La strage Continua. So che a decidere sarà un magistrato davvero bravo, Erminio Amelio, impegnato in passato con altri casi complicati.  

La sua inchiesta va a scavare nel marcio. E incrocia vari mondi, non di rado pericolosi. Non teme ritorsioni?
Per fermare un giornalista oggi non usano la pistola, ma le querele. E quelle sono arrivate. A dire il vero è arrivato anche altro, ma preferirei non parlarne. Di grave e scandaloso, a mio avviso, è che sia stata sequestrata la mia intervista a Vincenzo Vinciguerra. Un sequestro disposto da un giudice di Verona e durato poche settimane perché Andrea Di Pietro, il legale di Ossigeno, l’osservatorio che tutela i giornalisti minacciati, ha fatto dissequestrare il video.  Assurdo. Assurdo, perché mentre Vincenzo Vinciguerra veniva convocato a Bologna come teste, dopo la mia intervista, a Verona un altro giudice sequestrava.  

Chi era Mino Pecorelli? E a suo avviso oggi ha degli eredi?
Pecorelli era un giornalista d’inchiesta. Un bravo giornalista. È stato invidiato e massacrato dai suoi stessi colleghi. Solo oggi a distanza di 40 anni, e grazie all’Fnsi e al suo presidente, Beppe Giulietti, ha trovato appoggio e sostegno.  Leggendo le pagine del suo settimanale, mi chiedo quanti colleghi avrebbero oggi il coraggio di pubblicare quelle inchieste. Di scrivere di un presidente del Consiglio. Di attaccare un capo di stato. Non so se ha eredi. So che sono pochi i giornalisti che scrivono con coscienza. Pochi quelli che hanno nel lettore il vero padrone. 

[La foto dell'autrice è di Gabriella Prò N.d.R.]

 La strage continua

La strage continua. La vera storia dell'omicidio di Mino Pecorelli 

di Raffaella Fanelli
Ponte alle Grazie - 2020

 

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