La vera storia dei bambini che unirono l’Italia

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La vera storia dei bambini che unirono l’Italia

| Giuseppe Di Matteo

La storia, bellissima, è fondamentalmente questa: nel secondo Dopoguerra, migliaia di bambini del Meridione vennero salvati dalla miseria e dalla fame grazie al buon cuore di tante persone che vivevano dall’altra parte della Penisola. A regalargli la speranza di un domani migliore furono i cosiddetti treni della felicità (diretti principalmente verso l’Emilia-Romagna, anche se in realtà fecero tappa pure in altre regioni del Centro-Nord), sui quali venivano caricati dalle loro famiglie. Ad attenderli, al termine di un lungo viaggio verso l’ignoto, c’erano altre famiglie, per lo più contadine, che si sarebbero prese cura dei fanciulli, spesso malnutriti e graffiati da una povertà feroce, per poi “restituirli” ai loro genitori in una veste completamente nuova.

L’idea era grandiosa. E nacque a Milano grazie alla dirigente comunista Teresa Noce (che aveva combattuto la guerra civile in Spagna ed era stata internata dai nazisti nel lager di Ravensbrück) e alla nascente Udi (Unione donne italiane), scaturita dai precedenti Gruppi di difesa della Donna, già attivi durante la lotta partigiana. La Politica si fece avanti, ma in punta di piedi. Le sinistre, il Partito comunista in particolare, inizialmente un po’ esitanti (meglio aiutare tutti i bambini, o anzitutto i figli dei compagni?), alla fine aderirono all’iniziativa. Si mise così in moto una gigantesca macchina organizzativa.

I primi treni partirono nel 1945 da Milano, direzione Emilia-Romagna. Poi, anche dal Mezzogiorno, sempre verso il Centro-Nord. Fatto sta che, tra il 1945 e il ‘52, oltre 70mila bambini vennero strappati alla povertà e all’analfabetismo. Amati, accuditi, sfamati e vestiti, conobbero una vita e una quotidianità per loro sconosciute: il Nord e il Sud di allora, infatti, erano due pianeti diversissimi. Ma non tutti i bambini condivisero lo stesso destino: alcuni tornarono a casa; altri invece, pur non dimenticandosi delle loro famiglie d’origine, decisero di restare per sempre con i loro “nuovi” genitori.

Lugo di Romagna. Lorica Filippi e Renzo Morelli mostrano la foto di Rosanna De Luca, la bambina laziale che accolsero nel 1947.

Di queste vicende - che raccontano il cuore immenso di un Paese solo, lacerato dalla guerra e dal misero ventennio fascista e tuttavia voglioso di superare le reciproche incomprensioni - siamo venuti a conoscenza leggendo Il treno dei bambini di Viola Ardone (Einaudi, 2019). Già diversi anni prima, però, altri le avevano portate alla luce. Per esempio Giulia Buffardi, autrice di una ricerca intitolata Il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli. 1946-1954 (Editori Riuniti, 2016). Ma si potrebbe citare anche il documentario a cura di Simona Cappiello e Manolo Turri dall’Orto. Il titolo è emblematico: Gli occhi più azzurri. Una storia di popolo (2018), di cui esiste anche la versione cartacea pubblicata da La città del Sole e ora riproposta, in una nuova veste, da Colonnese Editore con il sottotitolo Le vere storie dei Treni dei bambini.

Ma questa è anche la storia di Giovanni Rinaldi, che da vent’anni prova a mettere insieme le tessere di un mosaico fatto di vite sparse e solo apparentemente scollegate tra loro. Nel 2009 era stata la volta de I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie (Ediesse). Tra parentesi, ed è proprio Rinaldi a spiegarlo, treni della felicità fu la definizione di un sindaco: quei convogli, infatti, erano stati pensati per far conoscere ai bambini un mondo nuovo. Negli anni, Rinaldi (cui Viola Ardone deve molto, e lo stesso si può dire degli altri autori citati ai quali la scrittrice dedica una “menzione” tardiva solo nelle edizioni successive del suo best-seller) ha rivisto, approfondito e dissotterrato altre incredibili ricchezze di matrice orale. E così, pochi mesi fa, è stato pubblicato da Solferino C’ero anch’io su quel treno. La vera storia dei bambini che unirono l’Italia (320 pp., 17,50 euro).

Giovanni Rinaldi, ricercatore di storie orali, fotografo e documentarista

La prima tappa del viaggio dell’autore è San Severo, in provincia di Foggia, dove, il 23 marzo 1950, a seguito di uno sciopero a oltranza era scoppiata una rivolta popolare. A causarla erano state soprattutto le tremende condizioni sociali dei lavoratori agricoli. Centottanta persone vennero arrestate; e, improvvisamente, molti dei loro figli si trovarono senza un tetto sicuro. Alla fine, una settantina di bambini pugliesi, provenienti da vari centri del Foggiano, salirono sui treni della felicità, cambiando per sempre la loro vita. 

Rinaldi parte dal “suo” Tavoliere delle Puglie e attraversa l’Italia come se fosse una ferita da cicatrizzare. Come un moderno tessitore, ritrova i vecchi figli della miseria intrappolati nell’oblio e gli restituisce una voce. Riemerge la sagoma di Dante, che a Ravenna scopre il latte e il caffè; di Americo, che ad Ancona mangia il suo primo gelato con la panna che «assomiglia a una ricotta»; di Franco, che non aveva mai dormito in un letto pulito. E di Pasquale, detto Zazà, che si mette in tasca i maccheroni che avanzano. Piccoli grandi spaccati di un vissuto quotidiano ricco di dolore e di aspettative che si arrampicano sul groppone di un’Italia caratterizzata da profonde differenze economiche e sociali.

«Mangiare foglie, che non erano altro che verdure selvatiche raccolte in campagna, era il modo per sopravvivere di molti braccianti. Possiamo immaginare quindi la sorpresa di Severino, Dante, Americo di fronte al cioccolato, a una brioche o a un gelato», scrive Rinaldi. Non a caso: per molti dei bambini che partirono le nuove famiglie avevano i contorni della Terra promessa. E per tanti di loro il ritorno a casa fu spesso traumatico, perché non c’era traccia del mondo felice che avevano lasciato. Non pochi furono i conflitti tra genitori e figli.

Rinaldi, com’è possibile che una storia del genere sia rimasta per tanti anni sotto il tappeto?
Mi sono fatto spesso questa domanda. I protagonisti di queste storie, stranamente (per noi), non se ne sono mai vantati. Hanno compiuto gesti e azioni che ritenevano “normali”, “doverosi”, “necessari”. Come definire quello che hanno fatto? Mi hanno risposto: …era la povertà che aiutava l’altra povertà. Miriam Mafai, che nel 1946 in quei viaggi verso l’Emilia era tra le accompagnatrici dei bambini romani, mi disse: “Ci sono interi pezzi della storia d’Italia che gli italiani non conoscono, e sono i pezzi migliori, della solidarietà, dell’amicizia, del sacrificio e li abbiamo buttati nel dimenticatoio. Senza quella Storia noi non avremmo l’Italia”.                                   

Tra le tante testimonianze che ha tirato fuori ce n’è una alla quale è particolarmente legato?
È sempre difficile, per me, estrarre dall’insieme delle storie una in particolare. Quello che mi attrae maggiormente nel raccoglierle e narrarle è proprio la loro unicità nell’apparente omogeneità della Storia di cui fanno parte. E quindi, ogni volta che devo scegliere mi tornano in mente singoli frammenti, di ognuna, che brillano di luce propria. Erminia che si meraviglia delle stelle che si riflettono nel mare; Americo che con quel suo nome va alla ricerca di un “mondo nuovo”; Vincenzo che tornando felice per la sua infanzia ritrovata, dalla Toscana a Napoli ricorda solo il buio in cui gli sembra di ripiombare; Aldo che scrive alla nipote “Tu immagina, quando io morirò, nessuno saprà mai di me, oltre voi. Perché sono un uomo normale, che ha fatto una vita semplice e felice”.   
La mia missione è estrarre queste storie dal buio e la cosa principale è non aggiungere nient’altro, solo ascoltare e ascoltare…”: sono parole di Svjatlana Aleksievič, che faccio mie.

Pozzuoli. A casa di Vincenzo Maione. Sul tavolo, una foto Vincenzo bambino insieme alla zia Maria, la donna che lo ospitò a Sinalunga nel 1946.

Le sue storie ci consegnano un Paese imbevuto di solidarietà e amore. È pensabile, oggi, un’Italia come quella di allora?
Ogni epoca ha i suoi carnefici e i suoi eroi. E ogni epoca ha aspetti che vengono esaltati e altri che vengono taciuti. Oggi ci sono modi diversi di agire solidale: sono più nascosti, spesso ostacolati, per la maggior parte poco raccontati. Ma ci sono. Non promossi dai partiti e dalla politica come molti decenni fa, ma vivono nelle esperienze dei volontari che soccorrono i naufraghi migranti, nelle associazioni che assicurano l’assistenza medica nelle zone di guerra, nelle famiglie accoglienti che ospitano i minori immigrati e nelle famiglie che da anni accolgono i “bambini di Chernobyl”. È un arcipelago, ma i valori che ne formano il collegamento – e che un tempo si univano all’ideologia – oggi rappresentano una rinnovata Resistenza.

Lei è un cultore della storia orale. Come si fa a mettere insieme così tante voci e farne una sorta di piccola Iliade della modernità?
Il mio è un lavoro artigiano, di tessitura. Le storie del mio libro sono composte da mille frammenti raccolti spesso in momenti diversi, situazioni diverse, che ricucio insieme provando a ridare senso a quel rapporto da cui sono scaturite: quello tra la mia curiosità delle vite degli altri e il testimone sempre diverso che ho di fronte. Il filo conduttore del mio impegno è forse proprio questo: essere mediatore, animatore di ricordi, sollecitatore di relazioni, traduttore di storie dalle lingue non scritte, scrittore delle parole dette ma mai ascoltate.

Nella terza parte del suo libro sembra esserci una inversione del percorso di ricerca. Prima la sua era la ricerca faticosa di testimoni sconosciuti a cui chiedere di raccontare. Poi, sembrano essere i testimoni stessi a chiederle di mettersi “al loro servizio”.
Terminata dieci anni fa la ricerca affannosa dei protagonisti di questa grande storia, si è – quasi spontaneamente – avviata una ricerca in direzione opposta. Era la ricerca che muoveva dagli stessi protagonisti per ritrovare il contatto con chi li aveva fatti vivere, sia pure un solo attimo della loro vita, in un “altro mondo”, mitizzato e mai dimenticato. E il mio lavoro è diventato il tentativo di ridare senso a queste “storie spezzate”. Qualche volta non ci sono riuscito, altre volte sì, assecondando il desiderio di questi uomini e donne di recuperare la memoria e gli affetti, di un tempo diverso dal loro presente, ritrovando quella serenità, vissuta nell’infanzia, che gli appare ancora come sogno e che si può rivivere solo con le parole.

C’ero anch’io su quel treno.
La vera storia dei bambini che unirono l’Italia

di Giovanni Rinaldi
Solferino - 2021

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