Perché ‘Spatriati’ è un’occasione persa

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Perché ‘Spatriati’ è un’occasione persa

| Giuseppe Di Matteo

Ormai il premio Strega assomiglia al pallone d’oro: premia infatti il marchio e non il contenuto. Per averne un’idea basta immergersi nella lettura di Spatriati di Mario Desiati, edito da Einaudi (277 pag., 20 euro), la cui corona d’alloro è probabilmente una delle più scontate degli ultimi anni. Sui social, ma anche nei luoghi istituzionali, le lodi si sprecano, come del resto è consuetudine in questi casi salvo eccezioni: guai a criticare il novello re dell’editoria italiana, sarebbe un atto blasfemo. O di lesa maestà. Eppure il romanzo di Desiati, salutato come il manifesto di una generazione, quella dei quarantenni «sradicati» (in particolare meridionali), è una delusione. Un’occasione persa. E i motivi sono tanti.
Manca anzitutto la storia. E, tutto sommato, anche questa è una caratteristica negli ultimi tempi piuttosto frequente. Non sono pochi infatti gli scrittori italiani che, lungi dal raccontare davvero qualcosa che resti nel tempo o che abbia un orizzonte di senso, si guardano l’ombelico e parlano soprattutto di se stessi sotto mentite spoglie. La trama del romanzo, comunque, si sviluppa intorno al rapporto tormentato tra Francesco e Claudia in un arco temporale che va più o meno dagli anni Novanta ai giorni nostri. Entrambi vivono a Martina, nel Tarantino, e in una Puglia sospesa tra antiche tradizioni e una modernità che s’intravede in lontananza e però resta evanescente. Ma quella casa gli sta stretta (anche se, a differenza di Claudia, Francesco tenta inizialmente di farsela bastare). Ed entrambi sono «spatriati», termine che in alcuni dialetti meridionali delinea i confini dell’incertezza e dell’irregolarità, soprattutto dal punto di vista sociale. Ad andarsene però è Claudia, schiacciata più dal peso dei suoi capricci sofisticati che dal fardello delle consuetudini (è Francesco a soffrirle di più). Le sue nuove ‘patrie’ saranno Milano, Londra e Berlino. Francesco la seguirà solo in seguito - ma resterà a lei legato anche durante la sua lunga ‘prigionia’ martinese - per poi scoprire che, in fondo, è proprio Claudia il posto che cercava.
Questa è la (non) storia, per la verità un po’ melensa, che trascina il lettore per quasi trecento pagine, ma senza il respiro della grande narrazione. Sullo sfondo si intravede una Puglia che cambia pelle restando la stessa. Esattamente come i protagonisti, che dalle loro esperienze imparano ben poco ma in compenso si ingozzano di letture colte e, con fare alquanto borghese, confermano le loro certezze precucinate. Il finale, prevedibile e scontato, almeno ha un senso: s’intona alle campane, stonate, del romanzo.
E veniamo ai personaggi. Claudia e Francesco sono i principali, e passano il tempo a perdersi e a ritrovarsi in uno snervante tira e molla che metterebbe alla prova il più paziente dei lettori. Anche perché alla lunga finiscono per non essere credibili: Francesco è infatti una specie di marionetta patetica e remissiva alla ricerca della sua identità fluttuante (che ha a che fare soprattutto con la sua sessualità); Claudia è un tiranno, un po’ comico e un po’ saccente, che si diverte a “seviziare” chi incontra sul suo cammino (Francesco è ovviamente il suo giocattolo preferito, ma evidentemente a lui piace farsi torturare). Due macchiette stereotipate, insomma. In Claudia e Francesco non c’è nulla di realmente ‘irregolare’: le loro storie, gonfiate ed esasperate, rientrano nel perimetro della convenzionalità: tutti e due provengono, guarda caso, da famiglie sfasciate che si intrecciano (che originalità); le loro peripezie anche quando camminano sul filo della trasgressione seguono schemi predefiniti e non contemplano mai colpi di scena che possano spiazzare. Vorrebbero capire chi sono, ma la verità è che non sanno che pesci pigliare (e questo è anche un difetto dell’autore, il cui romanzo in effetti non è né carne né pesce, anche se qualcuno ha provato a metterci una pezza con la solita storia del capolavoro delicatissimo, inclassificabile e indefinibile).
Un accenno, infine, alla scrittura: brillante - Desiati ha stoffa, nessun dubbio su questo - ma poco profonda. Fredda, artificiale. L’autore si preoccupa di spiegare ogni cosa, anche quando sarebbe più opportuno il non detto. Non poche volte si mette in cattedra e sfoggia qualche bella veduta letteraria, della Puglia in particolare, che però finisce per assomigliare a una cartolina sbiadita. Alla fine, della generazione che racconta non resta niente, perché ciò che Claudia e Francesco vivono e ‘consumano’ appartiene esclusivamente a loro, non alla coscienza di un popolo.
Il romanzo è diviso in due parti: la prima è accettabile, la seconda un vero strazio. La narrazione spesso si incarta e a lungo andare si affloscia; non poche situazioni, portate avanti fino all’inverosimile, hanno lo stesso sapore del vino allungato con l’acqua. La storia, sempre che si riesca davvero a trovarla, ne esce non poco danneggiata.
Insomma, ‘Spatriati’ non convince. Merita lo Strega.

 

Spatriati, copertina

Spatriati

di Mario Desiati
Einaudi - 2021

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