Referenze

In un villaggio inglese

| Paola Rocco

Pubblicato nel 1956 e inserito dal Sunday Times tra le 100 migliori crime stories di tutti i tempi, In un villaggio inglese appartiene con altre quattordici opere alla produzione gialla della scrittrice Shelley Smith, pseudonimo di Nancy Hermione Courlander (che col suo vero nome pubblicò anche un romanzo non di genere e qualche racconto). Nata in Inghilterra nel 1912, la Smith si trasferì giovanissima in Francia e studiò a Cannes e a Parigi, dando alle stampe il suo primo giallo, Background for Murder, nel '42. 
All'inizio del tutto inserita nei canoni del mystery di stampo classico di moda all'epoca (i suoi primi lavori sono dei whodunit in cui un enigma all'apparenza irrisolvibile e il suo impeccabile scioglimento appaiono gli elementi dominanti), col tempo la Smith modificò la sua concezione di romanzo poliziesco, sottolineando come fosse arrivata a considerare la psicologia “il fattore più importante, la strada giusta per arrivare alla soluzione di un crimine” e accentuando la propria indipendenza da schemi fissi e soluzioni codificate dall'uso (“Io non ho mai seguito uno schema o una formula, e quindi ogni mia storia è completamente diversa nella forma, nella struttura e nella trama da tutte le altre”).

Shelley Smith

Un pomeriggio piovoso di una domenica di giugno è il titolo del primo capitolo di In un villaggio inglese, e una festa in giardino, il party all'aperto dei coniugi Ambrose, è l'occasione per far sfilare tutti assieme i (non pochi) attori del dramma che di lì a poco andrà in scena e che l'autrice ha abilmente introdotto con una serie di scenette domestiche: il dottor Robert Mansbridge, il nuovo arrivato che dopo un inizio un po' in salita è riuscito a conquistarsi la stima e l'affetto dei locali, e la sua insopportabile moglie Editha; l'eccentrica scultrice Leslie Crispin e la sua compagna di vita, l'ombrosa Naomi Ryder; la vedova Verney col figliolo Lucien; i giovani coniugi Golding, Betsy e Edward detto Ned, con la vecchia fiamma di lui, Janet Scott; l'infelice Catherine Duncton detta Kate, col sadico padre invalido e la nascosta passione per Mansbridge... 
I pettegolezzi che serpeggiano ovunque, le giovani coppie in crisi coniugale, il medico benvoluto afflitto da quella megera insopportabile di sua moglie: gli elementi tipici del genere sembrano esserci tutti. E tuttavia In un villaggio inglese appare qualcosa di profondamente diverso dal mystery di stampo classico col suo ordine rassicurante, momentaneamente sconvolto dall'irruzione del Male ma pronto a riassestarsi sulle consuete fondamenta. Qui le fondamenta non esistono più, se pur sono mai esistite, e la demistificazione operata dall'autrice è evidente fin dall'inizio e si esercita in ogni direzione. 

Con quel villaggio che rifiuta di rendersi anche solo minimamente accogliente: “Non c'è niente di più deprimente di un villaggio inglese in un pomeriggio piovoso di una domenica di giugno. Le case, rese scure dalla pioggia, si stagliano trascurate contro un cielo plumbeo. E neppure un filo di fumo esce dai camini per assicurare che all'interno possa esserci vita e serenità... Si potrebbe pensare a un paese abbandonato, in attesa di venire sommerso dalle acque in piena di una diga”. E con la signora Barnaby, la vecchia zitella tipica di ogni paesino inglese che si rispetti, che col binocolo lasciatole in eredità dal fratello defunto è solita spiare - in ginocchio, perché le basse finestre del suo cottage non le consentono di farlo in piedi - le vite dei vicini. 
Ancora un rimando agathiano: quante zitelle curiose mette in scena la Christie, la stessa Marple si serve del binocolo fin dalla sua prima apparizione, ne La morte nel villaggio. E tuttavia nessuna delle vecchie signore - pur spesso tanto problematiche - nate dalla penna della Christie consegna al lettore una sensazione di squallore e di vita sprecata quanto questa piccola vecchia signora, che felice e contenta s'inginocchia di buon mattino alla finestra per abbandonarsi al suo vizio segreto. 
E c'è poi la sballottata, infantile signora Petrie, cui il marito ha fatto sapere che la lasciava per un'altra con un messaggio (quale modernità) e subito dopo è morto, lasciandola spiaggiata nella casetta dove usavano trascorrere le ferie; e che, nel suo fiabesco tenore, sembra sottolineare ancor più crudamente la squallida solitudine della donna, imprigionata in un'esistenza che le è capitata per caso e che lei subisce con l'impotenza di una bimba (“Abitava in una specie di minuscola casa di bambole, con alberi nei vasi fuori della porta. Sembrava l'illustrazione di un libro per bambini. Quando si erano sposati, quello era stato il loro cottage per i fine settimana. Si trovava lì per puro caso quando aveva ricevuto la lettera del marito in cui lui le diceva di averla lasciata. Non avendo nessun altro posto dove andare, era rimasta lì”). 
Ancora nell'ottica di una sconfessione del lieto fine (frequente, ad esempio, nelle sfumature rosa dei gialli della golden age in generale e dei gialli agathiani in particolare), la malcerta piccola vedova Petrie finirà tra le braccia di un uomo poco raccomandabile che pur affrancandola dalla desertificazione sociale (“Nessuno s'interessa a una donna sola, tanto più se la donna non è più tanto giovane”) e dalla costante sensazione di fallimento connaturata al non esser riuscita a tenersi il marito e al non riuscire a trovarne un secondo (“Per il suo tipo di donna, nella vita non importava altro”), la consegnerà a una strana esistenza di compromessi e tensione: “Le sue idee su quello che poteva rientrare nella decenza erano continuamente oltraggiate da Harry... eppure, quella blanda amoralità la affascinava. Imparò a restar calma a ogni costo”.

Uscito, come già accennato, nel '56, questo giallo della Smith s'inserisce inoltre nel pieno della passione per la psicanalisi di moda all'epoca e la tematica psicanalitica è più volte presente, a partire dalla chiacchierata di Eve Verney col figlio Lucien. Blandamente preoccupata per la vicina di casa, la giovane Kate Duncton, e per l'infelice esistenza che questa conduce al fianco del padre infermo, la signora Verney intuisce la passione della ragazza per il maturo dottor Mansbridge e non esita ad attribuirla a un complesso paterno: “Anche se alla fine lui dovesse morire continuerà a rovinarle l'esistenza, perché lei non sarà mai in grado di staccarsi emotivamente dall'immagine del padre... Uno si crea il proprio futuro sul modello del proprio passato... in maniera inconscia, naturalmente, ma è proprio per questo che è inevitabile. È tipico di lei essersi innamorata di qualcuno con il quale non potrà mai avere alcuna speranza; non vuole affrontare i problemi degli adulti, come il matrimonio. Vuole continuare a fare la figlia per sempre”.
E sempre alla signora Verney capita di fare un sogno - i sogni rivelatori, molto importanti ancora per la Christie, si pensi a Il terrore viene per posta o La serie infernale - in cui la Duncton è protagonista di una scena significativa...
Pur nel suo acume, quella della Verney resta una diagnosi da salotto, che la stessa Kate in seguito riuscirà a sconfessare in modo drastico. Ma più avanti anche il dottor Mansbridge non esiterà ad attribuire a un inconscio desiderio di procreazione - l'orologio biologico col suo ossessionante ticchettio - l'amore che Catherine prova per lui; e sempre Mansbridge, discutendo con la rabbiosa, frustrata consorte Editha (c'è un autentico surplus di femmine insoddisfatte in questo villaggio) le ricorderà che la sua depressione non è altro che un sintomo, chiedendole per soprammercato - conoscendo le donne! - se per caso non abbia mangiato qualcosa di dolce... 
Il pregiudizio maschile nei confronti di un universo femminile che ancora indugia a prendere il suo posto in un mondo diverso da quello delle proprie nonne e persino delle proprie madri è un altro tema importante in questo romanzo. La Verney discetta con un certo intuito di psicologia ma le sue conclusioni vengono prontamente “smascherate” dal figlio per quello che “realmente” sono, le patetiche fantasie di una donnina in menopausa. La Duncton trova il coraggio - lei, una ragazza di provincia che passa le giornate chiusa in casa - di dichiarare il suo amore a un uomo che in fondo conosce appena e tutto quello che riceve in cambio è una lezioncina sul determinismo biologico. 
E ancora la matura vedova Thrale orchestra un tentativo di seduzione che - seppur un po' goffo e precipitoso - potrebbe forse avere qualche chance se l'uomo cui è indirizzato non si sentisse oltraggiato da quest'invasione di campo e non si lasciasse travolgere dal senso del ridicolo connaturato, per certe mentalità, al ruolo del casto Giuseppe. 
“L'uomo che difende la sua virtù è sempre un personaggio da commedia” spiegherà anche Harald, insuperabile campione di maschilismo, alla moglie Kay, in quell'autentico capolavoro che è Il gruppo di Mary McCarthy, 1963. 
Eppure in questo romanzo le donne decidono tutto: con qualche eccezione, naturalmente, ma l'ultima parola è quasi sempre la loro. Sono loro a pianificare matrimoni, smascherare fallimenti, organizzare seduzioni e vendette. Sono la Crispin e la compagna a decidere che il giovane Verney potrebbe andar bene per la piccola Scott, la ragazza che hanno accolto in casa e che sentono come una figlia. È la Duncton a seguir Mansbridge nelle sue passeggiate solitarie, a cambiargli infine la vita, a sostituire la propria volontà alla sua - con maggior successo di altre donne del libro, che pure sembrano individuare nel medico una preda privilegiata, si tratti di un adescamento a fini matrimoniali o di un invito al tè delle cinque con sondaggi e domande (su come siano andate le cose) incorporati. 
E sempre le donne decidono che c'è qualcosa di sospetto, che ci dev'essere qualcosa sotto, che non c'è fumo senza fuoco, decretando l'isolamento sociale del presunto colpevole della morte di Editha e la sua caduta nel buio. E poco importa se, per ottenere lo scopo, devono adattarsi al ruolo - certo un po' stretto - di pacificata anziana signora, timida ragazza da marito, mogliettina ingenua e tutte le altre rassicuranti maschere codificate dal tempo.
L'unica che interpreti con autentico agio il proprio ruolo di outsider è la Crispin, che però è ricchissima e quindi, in omaggio a un limpido determinismo economico, affrancata dall'aperta maldicenza che condiziona l'esistenza di tutti gli altri: “Con i suoi sigari e il suo abbigliamento maschile, Leslie Crispin era considerata una tizia un po' stramba. Ma dato che era ricca, oltre che stravagante, i compaesani stavano attenti a comportarsi in maniera scrupolosamente rispettosa quando se la trovavano davanti. Non c'è niente di strambo nel denaro; quando uno è ricco, può sempre ottenere del rispetto da chi ha di fronte”. Geniale e facoltosa, la Crispin lavora in una mansarda attrezzata a studio in casa della Ryder, che gestisce una bottega d'antiquariato al pianterreno, e s'è invaghita della moglie del dottore, esasperando la gelosia della compagna al punto da far dubitare il lettore, quando Editha verrà trovata morta in circostanze poco chiare, che la rabbiosa Naomi possa essere implicata nella faccenda...

 

In un villaggio inglese

di Shelley Smith
Polillo editore - 2021

 

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Paola Rocco

Paola Rocco

Autrice del romanzo giallo 'La carezza del ragno' e appassionata lettrice, scrive di mistery e venera Agatha Christie. Vive a Roma con il marito, la figlia e una gatta freddolosa detta Miss Poirot.

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