La legge di Lidia Pöet

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La legge di Lidia Pöet

| Paola Rocco

In onda dal 15 febbraio scorso La legge di Lidia Pöet, miniserie Netflix in sei episodi che ripercorre i (prevedibilmente) problematici esordi nel mondo lavorativo di Lidia Pöet, la prima donna italiana a entrare nell'Ordine degli avvocati e a tentar d'esercitare la professione, nella Torino sabauda di fine Ottocento. 
Personaggio storico, dunque, e sono di questi giorni le piccate puntualizzazioni della pronipote, che ha sottolineato in un'intervista a La Stampa gli, a suo dire, non pochi errori, di forma oltre che di sostanza, della miniserie, comunque attestatasi a tempo di record al terzo posto tra le serie non in lingua inglese della piattaforma di streaming. Nella versione diretta da Matteo Rovere e Letizia Lamartire e prodotta da Grøenlandia, la Pöet è interpretata da Matilda De Angelis: a suo agio nel ruolo e abile nel dotare il suo personaggio della tormentata determinazione di chi vuole imporre la propria visione delle cose (la legge di Lidia Pöet, appunto), al netto d'ogni pregiudizio e nonostante il concreto rischio dell'assoluta solitudine. 

In questa versione, sceneggiata da Guido Iuculano e Davide Orsini, la Pöet, impossibilitata a esercitare la professione da una sentenza della Corte d'Appello che ne ha dichiarato illegittima l'iscrizione all'Albo, è costretta a ricorrere all'ospitalità del fratello Enrico, pure lui - o meglio, solo lui - avvocato a Torino, offrendogli la propria assistenza in cambio di vitto e alloggio e partecipando così della vita della famiglia: oltre al fratello in casa vivono infatti la moglie di questi, Teresa (un'efficace Sara Lazzaro), e la figlia Marianna, insieme al cognato Jacopo Barberis.
Irresistibile (e frutto d'un trasparente omaggio al Via col vento di Margaret Mitchell, altra grande epopea dell'emancipazione femminile, anche e soprattutto dagli stereotipi di genere) il primo incontro tra i due: con lei che in preda all'ira scaraventa un bicchiere di whisky contro il ritratto del padre e Jacopo che sorge all'improvviso da dietro lo schienale della dormeuse dove sonnecchiava fin'allora inavvertito, rivolgendo alla ragazza l'indimenticabile apostrofe: “Lei è la sorella pazza!”. Nella serie Netflix, Jacopo Barberis è interpretato dall'ottimo Eduardo Scarpetta: pronipote dell'omonimo, geniale commediografo napoletano capostipite della famiglia Scarpetta-De Filippo e (per quanto, a occhio, decisamente più alto) alquanto somigliante allo ziastro Peppino. 

Cronista presso la locale Gazzetta, oltre a insidiare la relazione di Lidia con Andrea Caracciolo (il bravo Dario Aita), Jacopo avrà fin da subito il merito di garantire l'opportunità di continuare a investigare e a raccogliere prove (in breve, a cercar di stabilire la verità) a una Pöet prontamente rimessa al suo posto dalla revoca dell'iscrizione all'Ordine promossa dalla consorteria maschile. 
Ammirevole la scelta di leggere sullo schermo parte delle motivazioni accolte dai giudici, compresa l'inopportunità per una fanciulla di accalorarsi in discussioni (vien da pensare al garbato disgusto del fidanzato Cecil di fronte alle intemperanze di Lucy Honeychurch, in Camera con vista) e l'invito a occuparsi invece di ciò che più può la donna (da una lettera della marchesa d'Azeglio alla nuora Giulietta Manzoni, pure lei antesignana delle giovani donne in gabbia dell'inizio dell'Ottocento): la casa, i figli, il marito...
“Se Dio ti voleva avvocato, non ti faceva donna” le fa notare, del resto, pure la cognata Teresa, con una leggera ma rivelatrice distorsione sintattica che sostituisce con un ineluttabile indicativo il più corretto (ma più vago, più possibilista, insomma meno ideologico) congiuntivo. E d'effetto la scelta di proporre in pieno centro cittadino i primi tentativi della ragazza in bicicletta: malcerta e tuttavia decisa nell'attillato vestitino da passeggio viola acceso - sostituito, nelle scene successive, da un audace tailleur pantaloni, indossato, forse, con lo stesso contenuto trionfo con cui, più o meno a quest'epoca, molte signore si libereranno del corsetto... -, la giovane Pöet catalizza l'attenzione dei passanti (però siamo pur sempre nella Torino di fine Ottocento, e non si va più in là di qualche sguardo inquisitore e di un perplesso silenzio). 
Nota a margine: molto bella la ricostruzione del capoluogo sabaudo fin de siècle, con la Mole in costruzione, i filari di pioppi, la nebbiolina crepuscolare, le buone lavandere a rompersi la schiena sul greto del fiume (e subito si pensa al tragico inghippo alla base de La donna della domenica), la tetra risolutezza del carcere de Le Nuove, gli arredi canonicamente orientaleggianti delle fumerie d'oppio e il fascino fiabesco e cosmopolita delle botteghe di stoffe (che commerciano in lana cachemire...). 
E ancora i guanti volumetrici, le perizie calligrafiche, il carbone vegetale, le prime prove insomma della scienza applicata al crimine, miste al tradizionale armamentario del bravo investigatore (con la Pöet che forza la porta con una forcina, e il rovescio di una lettera dimenticato sul luogo del delitto...).
E poi i grandi giardini invasi di foglie morte e le corse in bicicletta di Lidia e Jacopo per i colli torinesi, l'estremismo anarchico, i circoli esoterici (la grande tradizione esoterica di Torino) e quelli del whist; e ancora le lotte operaie, con le prime organizzazioni sindacali. E le belle stanze chiare dalle pareti ornate di frutta, le piante color cenere nei grandi vasi di pietra, gli esercizi al pianoforte delle signorine di buona famiglia e i dondoli di ferro battuto dipinti in azzurro cielo, su cui il profilo di Matilda De Angelis si staglia con una nitidezza da fiaba (o, se si vuole, con l'ipnotica improbabilità dei migliori fumetti). Un incanto per gli occhi e anche per il cuore, splendidamente fotografato da Vladan Radovic e Francesco Scazzosi. Belle anche le musiche di Massimiliano Mechelli.

Menzione di merito poi per la scenografia, firmata da Luisa Iemma e dotata di un'accuratezza maniacale (le tracce di resina per non scivolare sul palcoscenico del teatro dove le danzatrici provano Giselle: vien da pensare le abbia spalmate lei, una per una); e, naturalmente, per i costumi di Stefano Ciammitti, dettagliati, sontuosi e mai casuali. Ciammitti è stato allievo di Piero Tosi, e si vede. 
E una menzione pure per l'attore che interpreta la guardia carceraria nel primo episodio: avendo un ruolo che non si può neppur definire minore, ma che è praticamente un cameo, un'apparizione di pochi minuti (e infatti nell'elenco interpreti non viene neppur citato, o almeno io non sono riuscita a trovarlo, e me ne scuso), è comunque incisivo, caratterizzato e molto divertente nella sua ombrosa dedizione alla parola scritta (“E lei crede a quello che scrivono i giornali?” lo apostrofa infatti la Pöet). Davvero bravo: non esistono, del resto, piccoli ruoli, soltanto piccoli attori, no?
Ma insopportabile l'ormai apparentemente inevitabile ricorso a una luce accecante, calcinata (la luce smarmellata prediletta anche dall'improbabile tecnico delle luci dell'ormai mitologica serie Boris), spalmata, appunto, senza compassione su cose e persone non appena la scena preveda uno sbaffo di sole. Moduliamola un po' 'sta luce, dai: nemmeno nelle campagne pugliesi all'inizio d'agosto esiste una luce così.
Un efficace - e divertente - Pier Luigi Pasino è Enrico, fratello della reietta Lidia, cacciata di casa dal padre per la sua ostinazione nel voler continuare gli studi ma anche, e forse in primo luogo, per aver rifiutato il matrimonio d'interesse col vicino di casa che conosce fin da bambino (e che potrebbe, forse, offrire una via d'uscita al genitore sommerso dai debiti...). 
Azzimato nei suoi completi scuri, nella bombetta accuratamente spazzolata da irreprensibile esponente dell'upper class (che tuttavia a un certo punto spingerà di lato, seppur con garbo, nella foga del momento...), Pasino regala al suo personaggio una vena di sotterranea comicità ancor più apprezzabile perché contenuta e quasi, per così dire, in incognito (la comicità in incognito dei grandi attori inglesi e americani degli anni Cinquanta). Con quei tranquilli pomeriggi di domenica ad aggiustar velocipedi in soddisfatta solitudine - almeno finché non giunga ad attorniarlo una schiera di femmine petulanti...

E una brava Sinead Thornhill è Marianna, l'unica figlia della coppia Enrico-Teresa: destinata, nelle inesauste ambizioni materne, al consueto brillante matrimonio tra pari, da brava giovane ereditiera iperprotetta Marianna s'invaghirà prontamente del giardiniere (Agatha Christie docet), suscitando il prevedibile disappunto di Teresa e l'intenerita ancorché miope complicità della zia Lidia (ma la madre, certo, la sa più lunga...). 
“Entrare in società con il vestito giusto può dare grandi soddisfazioni” l'ammonirà infatti Lidia, spegnendo fittiziamente la ribellione della nipote e divenendone di colpo la confidente ideale. Vien da pensare all'outfit total black improvvidamente sfoggiato al debutto in società dalla sfortunata contessa Ellen Olenska de L'età dell'innocenza: concesso alla propria giovane protetta dalla zia, l'eccentrica Medora Manson, per i navigati ed educatamente silenziosi spettatori aveva costituito fin da subito un inequivocabile indizio su quanto sarebbe accaduto poi...  

 

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Paola Rocco

Paola Rocco

Autrice del romanzo giallo 'La carezza del ragno' e appassionata lettrice, scrive di mistery e venera Agatha Christie. Vive a Roma con il marito, la figlia e una gatta freddolosa detta Miss Poirot.

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