Api/1. Negli ultimi anni, Sherlock Holmes vive “completamente solo, se si eccettua una donna del villaggio che viene tre volte alla settimana per far pulizia e mettere un po' d'ordine”. Essendo “poco esigente”, questo tipo di ménage gli risulta congeniale: alla base della dieta “cibo semplice e tabacco”, che Holmes compra a libbre, le verdure che si coltiva da sé e le galline che razzolano sul retro del piccolo cottage - in ciottoli di selce e lastre di pietra - sulle colline del Sussex. A interrompere la routine, le periodiche puntate alla vicina Eastbourne per i giornali (“Sebbene raramente trovi su di essi qualcosa che mi interessa. Dalla fine della guerra il mondo è cambiato, per lo più in modi che non approvo, né capisco”) e la cura delle sue api, “che talvolta mi istruiscono sul comportamento umano”.
Errori. “Non poter più andare al Covent Garden ad ascoltare Wagner, oppure a un concerto alla James's Hall”, sono tra i maggiori rimpianti di Holmes nel volontario esilio; come pure “passare per caso in una galleria d'arte di Bond Street” (“Sebbene tema fortemente che i dipinti esposti rivelino le aberrazioni del gusto moderno”). Treno e carrozza i mezzi di trasporto preferiti; trarre conclusioni senza prove “il più grave degli errori”.
Api/2. “L'industriosa vita dell'ape operaia, l'installazione di una regina che non ha alcun potere, sebbene da essa dipenda la vita della colonia, il massacro dei fuchi quando nella tarda estate finisce il nettare dei fiori, sono lezioni da leggere nell'esistenza delle api, se solo gli uomini di Stato di tutto il mondo volessero impararle” (Sherlock Holmes).
Coppie. Il primo alloggio di Hercule Poirot e del suo grande amico, il capitano Arthur Hastings, al civico 14 di Farraway Street, Londra: “Ebbero una padrona di casa di nome Pearson, presto sostituita da una certa signora Murchinson; sembra che la situazione domestica assomigliasse a quella di Holmes e di Watson in Baker Street”.
Botticini. Non più alto di un metro e sessanta (“Sarebbe interessante sapere come ha fatto a evitare le regole sulla statura della polizia belga”), Hercule Poirot ha la testa perfettamente ovale e la tiene leggermente inclinata da un lato. L'andatura zoppicante è da far risalire alla ferita riportata durante la prima guerra mondiale; calza scarpe di vernice a punta - all'occasione sostituendole con alti stivaletti abbottonati - e in vacanza indossa completi bianchi di seta, flanella o tela (con scarpe chiare scamosciate e un panama anch'esso chiaro). “Quand'è di umore gaio o vuol dare un'impressione di ricercatezza porta un fiore all'occhiello”. Fiero dei suoi folti mustacchi scuri, col passare degli anni ammetterà senza imbarazzo di far ricorso a un apposito “botticino” per conservarne il colore (lamentando però il fatto che “ridonando il colore naturale ai capelli, se ne impoverisce la qualità”).
Trote. Cioccolata calda con brioche o croissant, la colazione favorita di Poirot (che non ama il tè all'inglese); “non è insolito vederlo bere una tisana, sebbene al pomeriggio sia più probabile che prenda ancora un bricco di cioccolata con biscotti”. Gli piace pranzare presto, non più tardi dell'una, e spesso sceglie cose molto semplici, un'omelette o una trota. La cena è “il sommo pasto della giornata”. “Era capace di cucinare? Non lo cogliamo mai in quest'attività, ma in un libro insegna a fare un'omelette” a una terribile padrona di casa dall'incredibile inettitudine ai fornelli.
Segugi/1. Di famiglia povera (“Da ragazzo ero poverissimo. Eravamo in tanti. Dovemmo farci strada nel mondo...”), Poirot raggiunge col proprio talento investigativo una notevole agiatezza, testimoniata dall'arredamento lussuoso della sua casa al civico 203 o 228 di Whitehaven Mansions (o Whitehouse, o Whitefriar), un isolato londinese degli anni '30 le cui forme geometriche ben si accordano col maniacale trasporto dell'investigatore per l'ordine e la simmetria: “Un grande alloggio lussuoso, con impeccabile arredamento cromato, poltrone squadrate e parecchi oggetti ornamentali rettangolari. Si può affermare che non c'era una sola linea curva in tutta la casa”, sebbene per un po' la mensola del camino ospiti la statuetta di un cane da caccia alla volpe (ricordo del trionfo di Poirot sul signor Giraud, viene poi chiusa in un armadio, essendo le sue linee fluide “troppo penose da contemplare”).
Cellule. “Le piccole cellule grigie del cervello”, secondo Poirot alla base della soluzione di ogni possibile mistero.
Contesse. Vera, contessa di Rossakoff, “personaggio del vecchio regime” (ha abbandonato la Russia dopo la rivoluzione) nei cui confronti Poirot nutre “un'ammirazione profonda e costante” fin dal primo incontro, nell'alloggio di Farraway Street (dove lei si fa strada “trascinandosi dietro un turbine di zibellini e un cappello lussureggiante di egrette massacrate”). Ladra di gioielli, la Rossakoff “viene smascherata da Poirot ma accetta la sconfitta con stile, suscitando l'ammirazione del detective”, che per un certo periodo “contempla persino la possibilità di sposarla”: “Poirot... prova per lei la stessa attrazione del borghese per l'aristocratico (la donna è un'autentica contessa russa), del piccolo per il grande, del pulito e ordinato per l'esotico e lo sregolato”.
Ruderi. “Donna di forme generose e appariscenti, con i lussureggianti capelli tinti di rosso coronati da un piccolo cappellino di paglia su cui è attaccato un vero esercito di uccellini dalle piume vivaci”, la Rossakoff gestisce un locale notturno chiamato Inferno ed è qui che Poirot l'incontra di nuovo, molti anni dopo il loro primo incontro: “Era perfettamente conscio che vent'anni sono pur sempre vent'anni. Si poteva caritatevolmente descrivere la contessa come un rudere, ma un rudere spettacoloso”.
Miscugli. Il bacio tra la Rossakoff e Poirot: “Non hai il senso del bene e del male” le dice lui con tristezza, “ma si lascia baciare, tanto che rossetto e mascara gli ornano il volto in un incredibile miscuglio”.
Ragazze. La signora Maigret, nei ricordi del commissario “una ragazza paffuta vestita di blu, con gli occhi scintillanti”.
Merluzzi. Pollo aromatizzato con dragoncello e punte di asparagi, uno dei piatti preferiti di Maigret (assieme al merluzzo alla panna). Minore entusiasmo invece per lo spezzatino di montone.
Stufe. La “solenne cassaforte di Monard” - con dentro “una bottiglia di Calvados per le giornate fredde” - nel nuovo ufficio di Maigret, al Quai des Orfèvres. Sulla mensola del camino, un orologio di marmo nero, “unica reliquia del passato”; alle pareti, una libreria chiusa, scaffali polverosi, “una scrivania che era il doppio di quella vecchia” e, in un angolo, la grande stufa a carbone, “simile a quelle che si vedono ancora nelle stazioni ferroviarie di provincia. Alimentare la grande stufa fino a far arroventare le piastre era uno dei piaceri dell'inverno”.
Orologi. “La vista sulla Senna era bella, il calore del grande termosifone sotto la finestra scaldava piacevolmente le gambe. Tuttavia, quando osservava l'orologio di marmo nero sulla mensola del camino, Maigret aveva l'impressione che il vecchio ufficio gli piacesse di più”.
Rum. L'appartamento dei coniugi Maigret, al terzo piano di Boulevard Richard Lenoir, a Parigi: dalla finestra arriva “un profumo di caffè e croissant caldi, con una traccia leggera di rum”.
Primule. Vino di primule gialle e infuso di camomilla, le bibite che Miss Marple usa prepararsi da sé nel suo cottage di Danemead, a St Mary Mead.
Rose. Il cottage di Danemead, sopravvissuto intatto allo sviluppo del villaggio di St Mary Mead (“Apparteneva al piccolo gruppo di case del periodo della regina Anna e di re Giorgio”), col salottino sovraccarico di ricordi preziosi (come il vecchio servizio da tè Worcester e la cristalleria Waterford) e, in un angolo, un armadio con il whisky per gli ospiti. Abilissima coltivatrice di rose, la Marple ama il giardinaggio ed è sempre in cerca di rarità per il suo giardino roccioso: solo quando il dottor Haydock le proibirà di chinarsi e inginocchiarsi per via del cuore, assumerà a malincuore un paio di giardinieri di scarso futuro (“Una tazza di tè dopo l'altra e un gran gingillarsi, nessun vero lavoro”).
Pettini. “Vasi di fiori morenti e pettini rotti sul davanzale”, secondo la Marple soggetti dominanti nell'arte della nipote acquisita Joan West, pittrice.
Pizzi. Alta, magra, con le guance rosa, splendidi capelli bianchi e morbidi e occhi azzurro stoviglia “ingannevolmente ingenui”, Miss Marple dà ai più un'impressione di fragilità, smentita dalla tenacia adamantina che sfodera una volta messa alla prova. Sebbene i “vestiti sportivi di buon tweed” siano il suo outfit favorito, nelle serate del club del martedì sfoggia “un bell'abito di broccato nero, molto stretto in vita, con una cascata di pizzi di Mechlin sul davanti del corpetto”, vezzosi mezzi guanti e una cuffia di pizzo, sempre neri; a volte invece porta uno scialle di pizzo avvolto intorno alle spalle e un pezzo di merletto sui capelli (“Adorava i pizzi”) o un abito da sera di seta color pulce.
Segugi/2. In una delle sue avventure, la Marple, nascosta dietro una porta, parla con la voce di una donna morta per far saltare i nervi all'omicida; e di lei ci viene detto che “è sempre stata capace di imitare la voce della gente”. Dotata di un acuto senso del male, riesce a intuirne la presenza, “quasi ad annusarlo nell'aria”. Per il suo vecchio amico Sir Henry Clithering, vicecomandante di Scotland Yard, Miss Marple è “il più bravo detective che Dio abbia mai fatto... un vero tesoro”.
Mappe. Il villaggio di St Mary Mead, “per chi viene da Londra” a un passo dalla stazione ferroviaria di Much Benham, dagli studi cinematografici di Hellingforth e dalla località balneare di Danemouth (situata “a non più di diciotto miglia”). Sull'altro lato del villaggio, “il primo posto di una certa importanza che si incontra è Market Basing”. Il Much Benham Herald and Argus è il quotidiano locale, che tutte le settimane riporta una colonna con la cronaca di St Mary Mead. “Con tutti questi particolari, qualche investigatore pignolo potrebbe identificare il villaggio con esattezza. Tuttavia, nessuno finora l'ha fatto”.
Mappamondi. Un mappamondo “di un po' più di mezzo metro di diametro”, una poltrona di cuoio rosso, un sofà giallo vivo, un fermacarte di legno pietrificato, un paio di incisioni e alcuni libri: questo l'arredamento dello studio di Nero Wolfe, “una grande stanza rettangolare” nella bella casa di New York, sulla 35ma strada, tra il civico 500 e il 900 (“Allora c'erano buone ragioni per non rivelare il numero esatto, penso che valgano ancora oggi”, Archie Goodwin). Ci sono poi la tavola di massaranduba in un angolo e il quadro bucato del monumento di Washington “usato come pannello per origliare”.
Salsicce. La scrivania è in legno di ciliegio, la sedia - “fuori misura, foderata di cuoio scuro” - è stata disegnata apposta per Wolfe da Meyer (altre sedie fuori misura si trovano un po' in ogni stanza, in sala da pranzo, in cucina e nella serra). Alle finestre, pesanti tendoni gialli (Wolfe ha un debole per il giallo); quadri di vario genere alle pareti, e poi carte geografiche, stampe, il ritratto di un minatore e vari ritratti di Socrate e di Shakespeare. Nell'angolo più lontano, un piccolo bagno fornito di lavabo; sul retro, la cucina “grande abbastanza da potervi mangiare”, regno incontrastato di Fritz Benner, l'incomparabile cuoco della Svizzera francese che condivide con Wolfe la passione per le salsicce e vive in pianta stabile nella casa, coltivando in cortile dragoncello e erba cipollina.
Scoiattoli. Stufato di scoiattolo in salsa nera, gamberetti fritti e pasticcio di molluschi di Cape Code in salsa agra con aggiunta di funghi, goulash di capretto: questi i piatti più apprezzati da Nero Wolfe, che - “forse a causa delle sue origini montenegrine mescolate ai gusti americani” - ha una predilezione per i cibi pesanti e piccanti (beve anche molta birra). Tuttavia, “sebbene giunga a pesare più di centoventi chili”, Wolfe è più grosso che grasso: “La faccia era larga e squadrata, ma non aveva le guance cascanti né la pappagorgia; era il volto di un uomo enorme, non grasso. Grandi mani armoniose, capelli scuri, occhi scuri dalle palpebre spesse, bocca carnosa e mobilissima, espressione abbastanza amichevole anche se un po' intimidatoria... Era la faccia di un peso massimo, e coloro cui piacciono i pesi massimi avrebbero potuto persino definirlo bello”.
Brownstone. La casa di Wolfe è una vecchia brownstone: costruite a schiera, in massima parte a cavallo tra Otto e Novecento, prendono il nome dalla facciata rivestita di arenaria scura e hanno tre piani più il seminterrato, “sicché dal marciapiede c'è sempre una rampa di scale”. La brownstone di Wolfe ha sette gradini ed è una casa doppia; sulla destra, subito dopo la porta principale, c'è un enorme attaccapanni (“un vero mostro, largo due metri e mezzo”) e poi il minuscolo ascensore, un metro e venti per uno e ottanta, sufficiente tuttavia a contenere il massiccio investigatore. La sala da pranzo, ricavata dalla fusione di due stanze, è lunga dodici metri.
Orchidee. Le diecimila orchidee, “gioia e orgoglio di Wolfe”, coltivate nella serra allestita sul tetto a vetri: se ne occupa Theo Horstmann (che per meglio accudirle dorme direttamente sul tetto, in uno stanzino). Alle otto, subito dopo aver fatto colazione a letto (con una tazza di cioccolata o quattro fette di pane tostato e uova beurre noir), il detective raggiunge la serra e ci resta fino alle undici del mattino e poi di nuovo dalle quattro alle sei del pomeriggio, “facendo finta di lavorare, in realtà ammirando le sue orchidee”.
Paradisi. “Non prendere nessun lavoro per mesi di fila, standosene tranquillo a leggere e a moltiplicare le orchidee”, il Paradiso secondo Nero Wolfe.
Pigiami. Wolfe ha un letto giallo, “di un legno venato chiamato anselmo”, con sopra un copriletto di seta nera, e per dormire indossa un pigiama giallo (anche le calze sono gialle, e così le camicie). Fuori dalla camera c'è una piccola luce rossa, un allarme collegato alla stanza di Archie Goodwin, che dorme al piano di sopra.
Figli. La teoria secondo cui Nero Wolfe potrebbe essere il figlio illegittimo di Sherlock Holmes e Irene Adler: “Secondo me, la maggior parte di queste teorie sono stravaganti se non del tutto assurde. Io, però, non so, e con me nessuno” (Archie Goodwin).
Braccia. “Wolfe era il cervello, io le braccia e le gambe; non ho mai preteso né voluto che le cose stessero altrimenti” (Archie Goodwin).
Ingressi. Anche Richard e Ellery Queen vivono in una brownstone a New York, una tarda brownstone vittoriana sull'87ma Strada: “Dietro la grande porta di legno di quercia con la scritta Queen c'era un piccolo e stretto ingresso; un arazzo con scene di caccia rivestiva interamente una delle pareti. Sotto l'arazzo c'era un pesante tavolo in stile coloniale spagnolo”, con sopra una lampada col paralume di pergamena e una coppia di fermalibri di bronzo con in mezzo i tre volumi di The Arabian Nights Entertainments.
Spade. La tetraggine di quest'ingresso “contrastava in modo stupefacente con l'allegro e ampio salotto”, rivestito su tre lati da librerie “che, uno scaffale sopra l'altro, giungevano fino all'alto soffitto” e abbellito dal grande camino sull'altro lato, con la sua grata di ferro e la mensola in legno massiccio. Sopra la cappa, le due spade incrociate donate all'ispettore dal suo vecchio maestro di scherma di Norimberga (Richard Queen ha studiato in Germania); “lampade, comode poltrone, un vecchio armadio di noce e alcuni cuscini vivacemente colorati completavano l'arredamento”.
Regole. L'ispettore Richard Queen non è alto più di un metro e sessanta: “Come nel caso di Poirot, deve aver eluso i regolamenti di polizia sull'altezza”. Un po' curvo, ha capelli e baffi grigi come gli occhi e mani delicate; d'aspetto mite, è tuttavia sempre “attento, vivace e competente”, oltre che animato da un sentimento di riverenza nei confronti del superiore intelletto del figlio Ellery (che a sua volta, in un caso, chiama il padre “buon Polonio” e soprattutto all'inizio appare pervaso da “un'eccessiva consapevolezza del proprio genio”).
Paraorecchi. Ellery è quindici centimetri più alto di suo padre: “Snello ed elegante, con negli abiti una traccia di Bond Street. I suoi occhi grigio argento vigilano dietro un pince-nez cerchiato d'oro, che porta attaccato a una catenella”, facendolo roteare quand'è soprappensiero o lustrando le lenti “con un delicato movimento circolare”. Scrittore a tempo perso di racconti polizieschi, porta un bastone leggero, fuma sia la pipa che le sigarette e fuori New York può capitare di vederlo al volante della sua Duesenberg due posti del 1924. Essendo quest'ultima un modello aperto, quando la guida d'inverno, anche con la capote alzata e i ripari laterali, Ellery indossa una vetusta pelliccia di procione e un paraorecchi di pelo.
Uffici. L'ufficio di Philip Marlowe a Los Angeles, Hollywood Boulevard: “Una porta ragionevolmente trasandata in fondo a un corridoio ragionevolmente trasandato, in quel genere di case che appartengono al periodo in cui i bagni piastrellati divennero la base della civiltà”.
Individui. “Un individuo come Marlowe non può sposarsi, perché è un uomo solitario, un uomo povero, un uomo pericoloso e, nello stesso tempo, un uomo comprensivo. Nessuna di queste caratteristiche va d'accordo col matrimonio. Sono convinto che avrà sempre un ufficio squallido, una casa vuota, saltuarie relazioni sentimentali... Mi sembra che il suo destino non possa essere che questo. Probabilmente non è il destino migliore di questo mondo, però gli appartiene. Nessuno riuscirà mai a batterlo, perché è invincibile di natura. Nessuno lo renderà mai ricco, perché è destinato a essere povero. Non so perché, ma sono sicuro che gli sta bene così” (Raymond Chandler).
Case. “Mio padre faceva il commesso viaggiatore; quando avevo dieci anni, ha tagliato la corda e non è mai più ricomparso. Non posso biasimarlo, perché mia madre ci dava dentro con la bottiglia. Nelle giornate buone non si attaccava al whisky che quando tornavo da scuola, nelle giornate cattive lo prendeva già a colazione. Avevo una sorellina di due anni più giovane di me... sì, una sorellina. È scappata con un circo a quattordici anni, non l'ho più mai vista né sentita. Non posso biasimare neanche lei. Casa nostra era un buon posto solo per non starci” (Philip Marlowe).
Notizie tratte da “I grandi detectives di Julian Symons”, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1981
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